Le cose belle ritornano: Danilo Sacco ad Accadia canta la vita e la speranza

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Non è vero che le cose belle finiscono. A volte ritornano.
Sono andato a sentire l’altra sera il concerto di Danilo Sacco ad Accadia, così come a settembre a Pisa ero andato a sentire i Nomadi nell’ultima tappa della tournée di Terzo Tempo. Col cuore in gola. Per scoprire, a Pisa, che effetto fanno i Nomadi senza Danilo (Cristiano Turato ha altre sonorità, ma è bravissimo. Per la serie: non è sempre vero che le cose belle finiscono. A volte, semplicemente, durano). Per scoprire, ad Accadia, l’effetto che fa Danilo senza i Nomadi, dopo la malattia, dopo le traversie che l’hanno colpito.
La prima risposta arriva dalla piazza. Sono bastati l’evento pubblicato da Danilo su Facebook e pochi sparuti manifesti per attirare ad Accadia migliaia di persone. Il popolo nomade ha risposto all’appello, compatto ed entusiasta. Siamo venuti da tutte le parti. Tra i diversi cartelli sventola uno da Venosa: cento chilometri per una serata che ripaga del tutto il sacrificio.

Il concerto di Danilo è un inno alla vita, uno slalom tra canzoni dei Nomadi, di Francesco Guccini  e dell’ultimo, bellissimo album di Sacco, Un altro me. Si va così della trascinante esecuzione de La vita che seduce, prima della quale Danilo invita tutti a “metterci il cuore, sempre e comunque, alla poesia de Il vecchio e il bambino, da una curiosa (ma molto trascinante) esecuzione di Vent’Anni di Massimo Ranieri, alla monumentale Non ho santi in paradiso di Massimo Bubbola, un gioiello di canzone di grande attualità: “non mi sono inginocchiato / mai davanti a un altro uomo né implorato né strisciato né prostrato sotto un trono / ed ho visto tanta gente cambiar d’abito e parole come tante marionette come sciocche banderuole/ non ho avuto niente in dono solamente il tuo bel viso / non ho tessere né pedaggi non ho santi in paradiso.”
Non è la sola gemma che illumina la notte di Accadia, assieme a una luna grande e stupita, che pare quasi cantare in coro con noi.
È una bella sorpresa, Un altro me. Ascoltandone i brani che si alternano ai successi dei Nomadi si capisce quanto importante sia stato Danilo per il suo gruppo di un tempo, ma anche quale inestricabile esplosione di creatività abbia prodotto l’incontro e lo scambio artistico di Danilo con Beppe Carletti, lasciando nell’uno e nell’altro tracce indelebili.
Già dai rispettivi titoli, Un altro me e Terzo Tempo stanno a indicare vie nuove, ma anche un assonanza. Il passato non si recide, non si rinnega, e alimenterà certo strade nuove, ma stupendamente parallele.
In perfetto stile nomade, Danilo ha inserito nella scaletta del concerto anche brani che da tempo non si sentivano, come Salvador, dedicata ad Allende: “Me lo hanno chiesto in Sardegna, gli amici di un ragazzo scomparso da poco.” E l’annuncio che il brano resterà in scaletta, d’ora in poi.
Lo spirito così come l’atmosfera sono quelli di sempre, canzoni che fluttuano tra palco e platea, con il pubblico in coro che spontaneamente riattacca il ritornello dopo l’ultima nota, e i biglietti e i regali e il flusso di comunicazione profondo che ci fa sentire un’anima sola.
Stasera c’è però qualcosa di diverso. C’è qualcosa di più. Come una promessa di futuro, la sensazione di un altro crocevia superato, di un altro viaggio che comincia.
Per anni ho sognato un concerto che vedesse tornare insieme Guccini e i Nomadi. Ho inutilmente tampinato, invocandolo a trasformare il mio sogno in realtà, Mario Simonelli. Il geniale fondatore di Orsara Musica, direttore artistico di tante manifestazioni su e giù per i Monti Dauni,  sarebbe capace di far tornare i Pink Floyd a Pompei. Ma davanti al mio sogno ha dovuto arrendersi: “Ci ho provato, ma un concerto assieme, proprio no, non si può fare.”
Capisco cos’è questa emozione, questo presagio di nuove strade, mentre canto a squarciagola Per fare un uomo, assieme al mio sconosciuto vicino di piazza (ma nel popolo nomade funziona così: ci conosciamo tutti). Sacco ripropone la mitica canzone di Guccini in un insolito quanto trascinante arrangiamento in stile anni sessanta.
Cantando e sentendo e guardando, capisco. Il mio sogno sta lì, davanti ai miei occhi. Avverato.
L’esprit di Guccini e quello dei Nomadi si ritrovano in Sacco, e non è per niente un caso se il grande vecchio di Pavana lo ha scelto quale suo erede artistico (sarà Danilo a portare in giro, assieme alla band del maestro, L’ultima thule). È come se fossero veramente tornati insieme. Destinati, adesso, a non lasciarsi più.
Questo incrociarsi di tempo – di ieri e oggi e domani -, questo ritrovarsi di destini, è sublimato dagli ultimi due pezzi regalati nel concerto di Accadia. Il primo è Dio è morto, che è la prima canzone depositata in Siae a firma di Francesco Guccini, resa immortale dai Nomadi, eseguita dal 1967 ininterrottamente nei loro concerti.
Poi Danilo Sacco chiude con quella che definisce “una preghiera laica”: Dinamite. Presente in Un altro me, in qualche modo autobiografica, la canzone racconta delle scelte importanti che nella vita prima o poi bisogna compiere, e di speranza. La dinamite che tutti possediamo per far esplodere la vita è il cuore: “le uova nel paniere / si potrebbero spezzare con il cuore / fuori dalla nostra vita / fuori dalla bulimia / di un anima che mai è stata mia.”
Il Dio che muore e poi risorge della canzone di Guccini diventa un Dio da pregare, che sta assiso in chiesa, ma comunque sempre vicino all’uomo che intenda azionare il cuore: “Tornando verso casa alla stazione di discesa / Mi perdo in una chiesa mi ritrovo inginocchiato / L’odore del creato l’odore di chi è stato toccato / E torturato quasi dimenticato. / Signore gli dico ho paura ho paura di cambiare / ho paura .. perché posso fallire. / Non ti posso aiutare / Devi batterti per primo / Devi batterti … ma ti sono vicino. / Il cuore… dinamite.”
Quel cuore che un paio di volte ha tirato a Danilo colpi mancini, è tornato a battere. Vivo, pulsante, sgargiante.

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Author: Geppe Inserra

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