Lucera? Meno triste e silenziosa di Troia

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Il Castello di Lucera come paradigma di quel che la Capitanata avrebbe potuto essere, se il sogno europeo degli Svevi non fosse stato troncato dalla Storia. Ma anche come simbolo di uno dei più moderni esperimenti  di integrazione tra l’Occidente e l’Islam. Il tutto, sotto la luce sfavillante di Federico II.
È forse azzardata, ma certamente suggestiva, la chiave di lettura utilizzata per raccontare Lucera da Romolo Caggese, storico prestato al giornalismo in Foggia e la Capitanata, che Lettere Meridiane sta leggendo assieme ad amici e lettori.
Le pagine che Caggese dedica alla Lucera sveva sono di rara potenza espressiva, ma anche di toccante attualità. Così come le considerazioni, talvolta pesantemente sarcastiche, che il grande scrittore originario di Ascoli Satriano dedica alla Lucera contemporanea, che vive attorno al suo Tribunale. Però Caggese restituisce a Lucera il suo rango di capitale morale della provincia di Foggia.
C’è abbastanza materiale per rivivere il fascino e la magia della Capitanata fridericiana: uno dei più grand sogni dell’imperatore svevo. Buona lettura. Domani tutte le foto del capitolo lucerino del libro di Caggese.

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Lucera è meno triste e meno silenziosa di Troia, ed è in tutta la Capitanata la città che ha più delle altre conservato il ricordo della sua storia. Le strade lunghe e strette, serpeggianti fra due file di case abbastanza alte e armoniche, riannodandosi tutte intorno ad un punto centrale ; le due porte delle sue antiche mura, dove oggi come in moltissime città medioevali toscane e umbre, è innalzata la barriera daziaria ; i frammenti delle sue mura e delle sue torri incoronanti mestamente la città che riposa su una dolce collina tutta verde di pampini e lieta d’alberi fruttiferi; il profilo delle sue chiese gotiche che spicca bruno e severo nel più bell’azzurro di cielo sereno, danno quasi la impressione e la illusione di trovarsi in una delle tante piccole storiche città toscane, dalie quali per vicenda di uomini e di cose il medioevo non si è potuto mai cancellare dalle pietre delle strade, dalle case, dalle mura, dalla coscienza stessa del popolo. Anche là, pur troppo!, il poco o nessun senso storico di tutte le classi sociali si è affaticato a imbiancare le vecchie case, a spolverare quasi della vecchia gloriosa polvere del passato l’anima e l’aspetto della città ; ma la disposizione topografica è rimasta presso a poco qual’era, e le chiese hanno serbato finora intatto il loro carattere medievale. Sant’Antonio Abate, S. Domenico, S. Francesco e il Duomo, specialmente il Duomo, sono veramente insigni opere d’arte che incatenano lungamente la nostra attenzione. La facciata della Cattedrale — una cuspide ad angolo ottuso, con un finestrone rotondo e tre porte gotiche di pietra calcarea —, il campanile terminato in cima da un ottagono, le tre navate semplici, solenni, altere, e l’altar maggiore solitario in fondo alla navata centrale sostenuto da sei colonnine poliedriche terminate da capitelli leggiadrissimi. sotto la scarsa luce piovente dall’alto; e la semplicità così armonica di S. Francesco, che fu già tempio dei Cavalieri Teutonici, incoraggiano il pensiero a riandare il passato. Ma non una iscrizione, non una statua, non un motto in tutto il magnifico tempio che ci parli all’anima, direttamente, la parola breve della grande istoria ! Soltanto nel battistero, una piccola statua di marmo con breve iscrizione rammenta il fondatore della chiesa, Carlo II d’Angiò ; ha le mani incrociate sul petto e poggia i piedi su due cani che sembrano piegati e stanchi sotto il suo peso. Più nulla!

Alla città che ostentava già le sue rovine gloriose ai tempi di Strabone e che, riedificata durante l’ Impero, fu ancora una volta distrutta dalle milizie bizantine alla metà del secolo settimo, secondo Paolo Diacono che la chiama opulentam Apulie civitatem, Carlo II d’Angiò, vincitore dei Saraceni, volle imporre il nome di “Santa Maria” per celebrare la vittoria su gl’infedeli del 28 agosto 1269. Ma il vecchio glorioso nome risorse sempre imperioso, anche quando fu elevata la mole del Duomo l’anno stesso del giubileo di Bonifacio VIII. Il sovrano angioino, cristianamente massacrati e spogliati i vinti, distribuì terre ai coloni cristiani e accordò un mercato annuo alla città ribattezzata; nel 1316 Roberto d’Angiò la donò al figlio prediletto Carlo di Calabria, e poi sempre per tutto il trecento gli Angioini furono larghi di concessioni alla vecchia città di Federigo. Sorse S. Francesco, dalla rozza ma purissima facciata quadrangolare, dalla porta svelta ed elegante, dal soffitto mirabile di precisione e di ricchezza in cui. non ostante i restauri moderni e le stridenti contaminazioni di stile, l’aura del trecento spira fresca e spontanea. E proprio di contro alla fortezza sveva, quasi in segno di sfida al mondo musulmano ed all’uomo che di esso alimentò il suo spirito e l’opera sua, ecco il chiostro di S. Salvatore, dalle imponenti arcate di pietra, quasi ricavato da un antico castello feudale, tetro, qua e là cadente, addossato alla breve vetusta chiesa monacale, quasi per non rovinare come la grandiosa mole della fortezza. Però, non ostante l’incuria e l’abbandono in cui giacciono da lunghi anni i monumenti lucerini, le chiese conservano qualche buon quadro, qualche tavola di non comune valore artistico, pergami e soffitti di pregio. Ecco, per esempio, in S. Salvatore un S. Pietro di Alcantara rapito in estasi in vista della croce; una «Vergine protettrice delle animo purganti ; una Sepoltura di Gesù Cristo; un’ancona dovuta al pennello del Marchesi, ne cui centro sfolgora una Immacolata, assunta nei cieli, ed ai piedi si stende, turrita e scura, Lucera dell’età di mezzo. In S. Giovanni è degno di ricordo un sacrario del quattrocento. In .S. Francesco è scolpito nel marmo il sepolcro di Giovannella Falcone, dei baroni di Visceglieto, e del marito Antonio Santa y de Paglias, seguace di Consalvo di Cordova — ora adibito a pergamo (!). E nella stessa chiesa oltre il soffitto, che ricorda i soffitti gloriosi dei palazzi pubblici di Venezia e di Firenze, ecco la  Crocifissione della fine del seicento, copia di un quadro più antico esistente in S. Agnese a Roma.
La Cattedrale vanta il bassorilievo della Madonna della Stella un S. Francesco di Carlo Maratta; due Crocifissi, imitazione del celebre Cristo di Guido Reni, indubbiamente di scuola bolognese e del secolo decimosettimo; L’Annunziazione di scuola emiliana; una Madonna della seggiola assegnata a Girolamo da Santacroce ; ed una serie di affreschi, come il Martirio di S. Pietro ; L’Adorazione dei Magi ; il Sepolcro e l’Assunta ; un Miracolo di S. Giovanni e il Paradiso della volta, tutti del secolo decimosesto. E poi il pulpito del 1560, il fonte battesimale del quattrocento, l’altar maggiore ed alcuni bassorilievi del trecento e del quattrocento non disonorano affatto una delle più caratteristiche costruzioni gotiche del Mezzogiorno d’Italia.
Ma per sentire nel nostro spirito moderno la grandezza epica del suolo di Lucera bisogna recarsi lassù, fra le grandiose terribili rovine del castello svevo, quasi miserabile avanzo di scheletri d’eroi abbandonati alla campagna e insepolti lungo il corso dei secoli. E quasi il tramonto del 14 ottobre, un tramonto lieto di canti e del volo delle ultime rondini saltellanti per le pietre ruinate. Foggia è tutta immersa nel sole, e il Celone, ingrossato dalle pioggie recenti, corre per la pianura arata come un fiume d’oro e di fuoco verso il mare. Le montagne del Gargano si disegnano azzurre e cupe su l’orizzonte in tutta la loro lunghezza, da Lesina a Manfredonia, e S. Marco in Lamis e S. Giovanni Rotondo affastellate sul dorso dei monti sembrano enormi carichi che spalle gigantesche trasportino alle vette più alte del Promontorio. Troia e Biccari dall’opposta parte, verso i monti del Beneventano, si distendono liete agli ultimi raggi del sole che discendono precipitosi verso la pianura e verso il mare. Biccari si disegna nettamente tra una fitta macchia di bosco divelto, e nella diafana serenità del cielo e del vespero pugliese spicca bruna e smozzicata la torre feudale, ai cui piedi è raccolto il borgo silenzioso. Le rovine della fortezza si animano, si muovono, parlano. Parlano di Sanniti, Bizantini, Longobardi e Normanni che si avvicendarono come onde d’un fiume perenne su questi colli ameni e fecondi; parlano di Federigo II che nel cuore del Regno cristiano, egli, creatore di leggi e condottiero di popoli e di eserciti, volle qui trapiantare una stirpe musulmana dall’isola sicula, così araba per dolcezza di clima e languore voluttuoso di vita e d’ideali. Gettò le fondamenta della sua fortezza in faccia alla città ; e quando gli architetti arabi e indigeni ebbero elevate su l’altura brulla e maestosa l’immenso quadrilatero del castello e costruito il ponte levatoio e scavato il fossato e avventate al cielo ben venti torri gigantesche, si accinse a riunire là i figli dell’Oriente che l’avverso destino della guerra aveva resi prigionieri di questo biondo e forte figlio teutonico, venuto alla luce divina del sole d’Italia, di Puglia e di Sicilia ad infiammare i suoi entusiasmi e i suoi sogni di gloria. Dal 1225 al ’45 a squadre, a manipoli, alla spicciolata gli Arabi di Sicilia passarono sul continente nella nuova sede appositamente per loro costruita accanto alla vecchia Lucera cristiana, smorta e languida intorno alla povera vecchia pieve cattolica, agli ordini del suo vescovo. Ed ivi vissero al culto delle memorie loro che il genio di Federigo rispettò e onorò e invidiò, vissero con la propria fede religiosa che l’imperatore difese e protesse, col Ioro fatalismo che il principe cristiano senti in tutto quanto aveva di più mistico e di più .solennemente misterioso. E se il ricordo della patria lontana li perseguitò e li costrinse ad odiare chi li aveva violentemente strappati a lei, ciò fu per breve ora, poiché mai forse più grande e colto e gentile amico e ammiratore ebbe l’Oriente, mai più sapiente senso politico seppe riprodurre in condizioni sfavorevoli, sotto le scomuniche dei papi e le maledizioni dei cristiani, il miracolo di un’oasi musulmana; e mai forse in uno spirito medievale fu più sentito e sincero il rispetto alla fede dei sudditi.
Lucera divenne la piazza forte dell’Imperatore nelle Puglie, e i Saraceni i suoi più fidi e valorosi sostenitori. Ed ivi si spensero all’alba del trecento, nella reazione cattolica ed angioina, i difensori del potere laico contro il Papato. Chi avrebbe detto loro che, nati così lontano, in Sicilia, essi sarebbero ritornati a dominare con la forza della loro civiltà ancora una volta il paese che un tempo, da Bari al Gargano, i loro progenitori dominarono con la forza delle loro armi ? e che avrebbero avuto la loro tomba in una piccola città cristiana, sovra un’altura brulla, fra la pianura e il mare ? Gli angioini o il papa vinsero, e su le rovine di tutti, un popolo laborioso, ultimo avanzo di una stirpe meravigliosa che seminò la Sicilia di monumenti, eressero la nuova basilica cristiana, la nuova sede vescovile. Ma gli Arabi avevano portato dalla patria gli elementi e le nozioni di industrie feconde, e della morta Lucera cristiana fecero una città fiorente di commerci e ricca
di prodotti, di armi, telai e lavori in legno, di gusto finissimo. Federigo non mancò di spendere ogni cura per la sua colonia, abbellendola di monumenti d’ogni parte trasportati, adornando la sua corte di un lusso orientale, non dimenticando né pure la istituzione di uno splendido harem, custodito da eunuchi. Suo figlio Manfredi, che conosceva l’arabo perfettamente e tanti elementi di cultura, di civiltà, di sangue arabo aveva nelle vene e nell’anima, tenne sempre cara la colonia saracena e si oppose sempre energicamente ai tentativi di conversione al cristianesimo da parte della Chiesa e agli ordini perentorii che gli venivano di rimandare in Africa gli sperduti nel buio dell’errore fra la comunità cristiana. E fu chiamato il Sultano di Lucera, e come tale ucciso e violentato dal legato pontificio che meritò l’invettiva dantesca. Per l’ultima volta, forse, i vessilli svevi sventolarono su le torri del castello, inalberati da mano saracena, quando Corradino corse a vendicare lo scempio di sua stirpe. Poi, a nulla più valsero le ribellioni, a nulla valse l’aver combattuto, nella guerra del Vespro Siciliano, sotto la bandiera cattolica angioina contro i ribelli di Sicilia e gli Aragonesi. Un giorno, senza alcun motivo improvvisamente, le milizie del Re di Napoli trucidarono, per mandato pontificio, glieroici difensori della Fortezza, diroccarono le moschee e ne dispersero gli avanzi Durante gli ultimi trent’anni del secolo decimoterzo Carlo I e Carlo II d’Angiò mandarono più volte numerose squadre di Saraceni in Grecia, in Romania, in Oriente capitanati da condottieri venduti alla corte, desiderosi di speculare bassamente su quella povera carne umana avviata al colonato obbligatorio ed alla servitù della gleba! Allora più che mai acquistavano un valore immenso, tra di profezia e di epigrafe, le parole di Federigo II: “O Asia felice, o felici monairchi dell’Oriente, cui non è fonte di affanni la istituzione del Papato! O felice Saladino, che nulla ha da temere dai Papi!”.
Nei secoli del Rinascimento e dell’età moderna Lucera perde tutta la sua iimportanza, legata indissolubilmente alla fortuna di Casa Sveva ; e, come tutti i piccoli centri del Mezzogiorno, non ha quasi più il ricordo preciso di quello che un tempo valse nella storia della civiltà italiana.
Delle superbe sale del palazzo imperiale non resta quasi più nulla ; soltanto di una si mostrano ancora, fra i roveti e l’erba folta che vi cresce, le basi ampie come di piccola piazza. Delle venti torri non restano in piedi che due, dette dai popolani «del Re e della Regina», quasi intatte, gigantesche, con feritoie profonde e lunghe, merlate, rotonde, a cavaliere della collina. Nel recinto del castello, fra un ammasso di sassi e frammenti di calcina e scalinate cadenti o ruinate, i caprai conducono le mandre a sera, dopo il pascolo, non potendole alloggiare in città o in comodi ovili di campagna.
Povera reggia! Risonante di squillanti risa di odalische e di canti di troveri provenzali e siculi, superba di cavalieri e di dottori, di artisti e di poeti, di amori e di armi, di bronzi, di marmi, di trofei di vittorie, liete del più bel fiore della cultura d’Italia nei primordi della sua lingua e dell’arte sua, altera e immensa come l’anima del suo sovrano, ridotta a spelonca di ladri prima, ad ovili poi! Nel settecento le pietre della fortezza servirono al palazzo dei Tribunali ed all’edificio delle carceri ; e chi sa che fra un secolo, quando i muratori avranno finito di servirsi di queste pietre sacre, l’aratro tenterà di rendere feconda questa terra di eroi !
Già, hanno da pensare a ben altro a Lucera che a salvare dalla distruzione inevitabile il monumento svevo ! Pochi uomini d’intelletto e di cultura, giuristi ed oratori di razza, non possono animare d’entusiasmo un popolo che non sa e non sente. Che importa degli Svevi? Chi erano gli Svevi? E i Saraceni che cosa erano venuti a fare quassù ? Chi ve li aveva chiamati ? C’è un Seminario vescovile, a Lucera, c’è un Liceo-Convitto Nazionale e c’è, sopra tutto, un Tribunale Civile e Penale e la Corte d’Assise, unico Tribunale ed unica Corte della Provincia! Ecco le sue vere glorie immortali e le sorgenti dell’orgoglio cittadino. I circa quattrocento avvocati (su circa ventimila abitanti!) regolarmente esercitanti la nobile industria forense son sempre tra i piedi della gente ; ogni buona famiglia lucerina ne conta da uno a mezza dozzina, e si accontentano di esporre solennemente nei salotti da ricevimento i bei diplomi di laurea, in attesa del ricco cliente che non viene mai. Giudici, cancellieri, impiegati subalterni, ufficiali giudiziari, procuratori e sostituti d’ogni parte d’Italia sono i veri e soli alimentatori del mercato locale ; la città, eccettuate alcune dimore di famiglie ricchissime, è tutta una bottega e un albergo, dove si spende come a Milano e Genova e si è serviti come in una qualunque piccola città. Eppure, quando il treno vi riporta rapidamente verso Foggia e voi vedete risplendere nella notte le magnifiche lampade ad arco e i lontani fanali lassù, in cima al vecchio castello, vi sentite quasi commossi e vorreste tornare ancora indietro per ascoltare, nel silenzio notturno, le mille voci del passato che, su l’ora del tramonto, il trillo delle rondini e il canto dei lavoratori e l’armonia dell’universo risonante nell’anima, non vi ha permesso di ascoltare religiosamente e in tutta la loro mesta inflessione carezzevole.

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Author: Geppe Inserra

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