La leggenda della campana di Re Manfredi

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Gli amici e i lettori di Lettere Meridiane conoscono già Antonio Beltramelli e il suo libro sul Gargano, che costituisce uno dei primissimi esperimenti di letteratura turistica, nonché di scoperta del BelPaese, che soltanto da poco aveva ritrovato la sua unità.
Ho già dedicato a questa opera alcune lettere meridiane (chi le avesse perse, o volesse rileggerle, trova i titoli più avanti, con i relativi collegamenti).
L’aspetto più prezioso del volume, che fu il primo riguardante un’area della Puglia nella collana Italia Artistica, edita da Corrado Ricci, e che lo rende ancora oggi attualissimo, sta nell’inesauribile curiosità intellettuale di Beltramelli, giornalista e scrittore di razza: “Lo scrittore romagnolo – ha scritto il critico e docente di San Severo Francesco Giuliani, che ha ri recente curato una nuova edizione dell’opera, per i tipi di Edizioni Il Rosone – percorre in lungo e in largo lo sperone della penisola, che non aveva mai conosciuto prima, mostrando una grande curiosità, che lo porta a salire sulle scomodissime diligenze, a muoversi in condizioni di fortuna, a sfidare le difficoltà di una terra priva di ferrovie, di strade decenti, di alberghi degni di questo nome, sconosciuta alla maggior parte degli italiani. Beltramelli non nasconde tutti i problemi che gli si presentano, ma nello stesso tempo rende con grande abilità la bellezza di questa terra.”
A dimostrare la verve e la capacità narrativa di prim’ordine di Beltramelli ci sono le pagine dedicate a Manfredonia, che pubblichiamo di seguito.
L’autore non si limita a raccontare le cose più o meno belle della città sipontina, offre un vivacissimo ritratto della gente, indaga nella cultura popolare più ancestrale, riscoprendo, per esempio, l’antica leggenda della campana dei turchi. Un reportage di grande bellezza, da leggere tutto d’un fiato.
Le altre lettere meridiane su Beltramelli:

L’album fotografico con tutte le illustrazioni del capitolo su Manfredonia del libro di Beltramelli sarà pubblicato domani sulla pagina facebook di Lettere Meridiane e sul gruppo degli Amici e Lettori di Lettere Meridiane. Se non l’avete ancora fatto, diventate fan della pagina o iscrivetevi al gruppo. 
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A due chilometri da Manfredonia ci arrestiamo ad ammirare una piccola chiesa: Santa Maria Maggiore, l’unica superstite dell’antica Siponto.
La facciata, che è un semplice quadrilatero di travertino giallo senza alcuna composizione, trae la sua bellezza dalla porta che poggia su colonne sostenute da leoni e da un portico ad archi in istile romano. Su lo spiazzo erboso che si apre innanzi alla chiesa, si elevano due colonne senza capitello e al suolo giacciono scomposti ruderi di un antico tempio. Santa Maria Maggiore fu un tempo cattedrale dell’arcivescovado di Siponto, ora ne rappresenta da sola l’ultima età medioevale.

L’origine di Siponto (Sipus secondo Strabone) si perde nel mito. Vuolsi fondata dal leggendario Diomede. Essa si elevava in una sinuosità formata dal golfo detto oggi di Manfredonia; era, all’epoca romana, un centro commerciale di grande importanza. Fino all’epoca di Manfredi, benché decadesse, continuò il suo commercio.
Fu uno dei più antichi vescovadi d’Italia: la leggenda cristiana afferma che San Pietro stesso vi avrebbe ordinato il primo vescovo. Secondo la storia però il primo Vescovo di Siponto, che si conosca, è Felice, il quale vien nominato in un concilio dell’anno 465. Per qualche tempo gli arcivescovi di Siponto, forse per tema delle incursioni saracene, abbandonarono la loro sede rifugiandosi a Monte Sant’Angelo. La chiesa di Santa Maria Maggiore, antichissima, venne riedificata nel XII secolo durante il pontificato di Pasquale II. La cripta, sostenuta da venti colonne di granito, rimonta a tale epoca, come rimontano a tale epoca la porta della chiesa e le mura di cinta. Pasquale II visitò Siponto e ne consacrò la cattedrale nel 1117.
 Il Gregorovius arguisce che il porto di Siponto, come luogo di approdo per la intera provincia, prendesse allora il nome di Porto di Capitanata; ivi sbarcò l’ 8 gennaio 1252 Corrado IV per impadronirsi dell’Italia meridionale e Manfredi lo ricevette a Siponto cedendogli spontaneamente il dominio delle Puglie e delle altre province ch’egli aveva condotto a soggezione.
Siponto fu devastata più volte dal terremoto e questa fu già una causa della sua decadenza — però il terremoto del 1255 la rase compiutamente al suolo; fu allora che Manfredi, entrato in possesso di queste terre dopo la morte di Corrado, pensò edificare una nuova città in luogo più sano e più difeso dalle scorrerie dei pirati. Scelse così una terra distante due miglia dalle rovine di Siponto; lo stesso re fece il disegno della nuova città e il congiunto suo, Malecta, ne condusse l’esecuzione. I lavori si iniziarono nel 1256, dopo due anni l’arcivescovo sipontino Ruggiero d’Anglona vi si insediava col suo clero. In memoria del suo fondatore la città prese il nome di Manfredonia. La nuova cattedrale fu consacrata a San Lorenzo Vescovo di Siponto. Però le mura del castello ed altre parti della città non erano ancora compiute allorché Manfredi cadde eroicamente in battaglia presso Benevento. I successori di lui, gli Angioini, condussero a termine la città e le opere di difesa.
Prima di giungere a Manfredonia attraversiamo vasti campi di fichi d’india che danno un aspetto singolare al paese. La pianta mostruosa e deforme drizza le sue poche foglie carnose, erte di innumerevoli spine; foglie coronate al margine da una serie di bitorzoli o di fiori giallastri che si convertiranno nel dolciastro frutto di cui sono ghiotti i meridionali. Passiamo innanzi a villette, a cascinali, a una piccola chiesa abbandonata. Le abitazioni si moltiplicano. Siamo alle porte di Manfredonia, la quale ci appare in tutto simile ad una città moresca con le sue case a terrazze, bianche e abbacinanti, disperatamente uguali e simili a tanti dadi posti l’uno accanto all’altro sopra uno smisurato scacchiere.

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— All’Hotel Manfredi — dice qualcuno che segue il nostro sciarabbà (specie di veicolo a due ruote, n.d.a.). Mi volgo maravigliato. Sia possibile davvero trovare un hotel in un paese del Gargano? fino ad ora sono stato abituato a sì indicibili tane, a sì immondi giacigli, che l’idea di riposare per qualche ora almeno in un letto civile mi consola.
Mi faccio condurre senza indugio verso l’ospitale dimora; l’aspetto esterno mi è di grande scoramento, Una porticina larga un palmo; una scaletta nera, sudicia, scivolosa, con certi scalini smisurati che pare costrutta per una generazione di giganti e, a sommo, un omuncolo che mi attende.
— Chi sei? —mi chiede.
— Hai da alloggiarmi?
— Entrate.
Siamo al buio in un antro dove spira un olezzo tale di mille innominabili cose che ancora ne provo l’acuta sensazione, poi una porticina si apre ed entriamo in un vasto stanzone in cui sono allineati in bell’ordine sei letti. L’albergatore attende che mi decida; vista poi la mia sorpresa — ch’ io pensavo come dovevano essere numerose le famiglie lassù se in un sola stanza occorrevano tanti letti — mi dice :
— Se voi volete un letto con il risparmio, lo scegliete in un bel posto e lo pagate meno.
— Che dici? —chiedo sorpreso.
— Quelli vicini alla finestra sono i migliori — risponde il mio uomo — scegline uno di quelli, dormirai bene.
— E negli altri ? — chiedo, non rendendomi esatto conto delle sue parole.
— Negli altri? Due sono occupati. Qualcuno capiterà prima di sera per dormire nei vuoti.
Così sono unito per volontà di irremissibili cose all’ignota brigata che il destino mi ha serbato per farmi assaporare le inattese gioie del Gargano. L’ Hotel Manfredi, come si vede, è un falansterio (casermone, grosso fabbricato caratterizzato da elevata densità abitativa, n.d.c.) in piena regola.
Il mio uomo che ritorna per recarmi un poco d’acqua melmosa, necessaria alle mie abluzioni, e per riempire l’aria, con un suo soffietto, di una polvere irritante che mi confessa poi essere razzìa (insetticida, n.d.c.), ha un nome altisonante: si chiama Don Michele Rosari de Tosquez e discende da un’antichissima famiglia spagnola insignita della dignità baronale. Il volgo lo chiama Don Michè; è celebre sotto questo nome. L’elegante scrittrice inglese Janet Ross fu sua ospite qualche anno fa e ne tratteggiò la figura nel volume “La terra di Manfredi”. Io mi accontento di guardarlo : è piccolo, sdegnoso e non ha di bianco se non il bianco degli occhi.
Nel 1620 Manfredonia fu presa d’assalto dai Turchi e data alle fiamme; questa la ragione per cui non si incontra più nulla o quasi nulla di antico, toltone qualche chiesa e il castello.
Il duomo, quale è ora, fu ricostruito dal cardinale Orsini nell’anno 1620. È un edificio che non presenta nessuna grazia architettonica. È sormontato da una piccola cupola e fiancheggiato da un campaniluccio costrutto in pietra calcarea giallastra.
A fianco alla cattedrale sorge il palazzo arcivescovile. Gli arcivescovi Tolomeo Galli e Domenico Ginasi lo fecero erigere nel 1565. Anche l’arcivescovado è privo di qualsiasi interesse artistico. Noto due capitelli corinzi messi alla porta d’ ingresso.

La chiesa di San Domenico (ergentesi in un angolo della piazza principale) annessa anticamente al convento dei Domenicani ridotto ora a sede del municipio, è un grande edificio (uno fra i più antichi) notabile per una bella porta. All’interno si ammira la cappella della Maddalena.
A levante della città, sul mare, si eleva il castello angioino, grande quadrilatero munito di mura e di torri. Tale fortezza fu elevata, per incarico di Carlo I d’Angiò, dal suo architetto Maestro Giordano da Monte Sant’Angelo, il quale cinse pure di mura la città. È memorabile la resistenza che detto castello oppose agli assalti del maresciallo Lautrec al tempo in cui questi guerreggiava contro Napoli. Però il fato gli serbava più triste sorte coi Turchi che lo presero e lo smantellarono. È viva, ancora in Manfredonia la tradizione di questi feroci pirati e molti sono i canti e le leggende che li rammentano.
Esposta sempre agli assalti degli avventurieri del mare, Manfredi si avvisò difendere Manfredonia e, come narra il cronista Matteo Spinelli da Giovinazzo, allorché fu costrutto il campanile della prima cattedrale ordinò “che se facesse una campana grossissima che se senta cinquanta miglia dintro terra, a tale che haveria potuto venire succurso se Manfredonia fosse stata assaltata da nemici, mentre è poco abitata e da chella hora se dicette che lo Re volia capare de le terre grosse de tutta Puglia tante casate per terra, per fare Manfredonia terra di tremila fuochi”.
Secondo il desiderio del Re, la grande campana fu fusa e nell’anno 1263 Manfredi stesso si recò a sentirla suonare. Però non ne fu contento perché il suono non era sì forte da vincere lo spazio prestabilito, sì che la fece rifondere e vi fece aggiungere nuovo metallo.
Come Carlo I d’Angiò successe a Manfredi, detta campana emigrò al santuario di San Nicola di Bari, finché fu rifusa per batterne moneta. Questa la storia. Il popolo, che segue un suo sentimento gentile, così favoleggia del dono che Manfredi volle fargli, per la salvezza sua. Allorché i Turchi assaltarono la città rapirono la enorme campana e la trassero nelle loro navi. Fatta vela a buon vento, furono per partire ma in alto mare una furiosa tempesta li colse; pochi si salvarono ; la campana affondò insieme alla nave che la trasportava. Erano a questo punto le cose e si stava rifabbricando Manfredonia, allorché il giorno della festa di San Lorenzo, che è il protettore della città, verso sera tutto il popolo accorse alla spiaggia maravigliando : dall’alto mare giungeva, su l’acqua, cupo e solenne, il suono della campana che il mare aveva voluto per sé. Ed ora, affermano i vecchi marinai, quando deve toccare qualche disgrazia a Manfredonia, i buoni hanno virtù di riudire il suono lontano che giunge dalle profondità marine. Una leggenda simile, benché non associata a dati così esatti, raccolsi da un pescatore delle lagune di Comacchio.

Procedo per la gaia cittadina dalle ampie vie regolari, percorse da una folla varia tumultuante, urlante. Quanto più ci s’inoltra nel mezzogiorno d’Italia, tanto più il popolo sente necessità di manifestare ad alta voce i suoi pensieri ed i suoi sentimenti. Colgo ad ogni passo brani di dialogo che potrebbero interessarmi forse, se riuscissi ad intendere i suoni gutturali di questo dialetto. E non intendo così le continue spiegazioni di masto (l’o non si pronuncia affatto, n.d.a.) Tomà, un vecchio muratore che mi segue per portarmi le macchine fotografiche. Solo di tanto in tanto esce in esclamazioni enfatiche, fra le quali una intendo che si ripete come un ritornello, a esaltazione di Manfredonia : Chesta è la meglio nazzione de lu mundu (Questa e la migliore nazione del mondo, n.d.a.). Né io tento spegnere il suo nobile entusiasmo.
Particolarità strana di queste casuccie moresche che assomigliano tanto nell’insieme a certi villaggi della Sicilia, sono le finestre a foglia. Non si sa proprio per quale bizzarria architettonica abbiano assunto tale atteggiamento. Noto, ripetute su tutte le porte delle case popolari, tre croci, tre grandi croci tracciate col bianco di calce, messe là a salvare i fanciulli dalle malìe delle streghe che scendono da Benevento. Le case delle persone agiate, recano in contrapposto, in una piccola nicchia, una statuetta di San Michele, scolpita in pietra del Gargano. Mi dirigo al porto mentre il cielo si annuvola. Il mare assume, sotto il rapido variare delle luci, bagliori ed ombre improvvise ; il suo colore è indicibile, tanto rapidamente trasmuta. La parte della città che guarda il mare è più sudicia e povera ; essa segue la curva della spiaggia come in un soave abbracciamento.
Molti operai lavorano alla estremità del molo che si slancia in mare per buon tratto proteggendo il porto, a levante, dalle furie di Borea. Alcune paranzelle sono ancorate vicino alla spiaggia; figgono le loro antenne nel cielo immobilmente: paiono deserte, abbandonate. Ad un tratto tutte le campane della città, come ad un invisibile cenno, si levano unite, in un grande stormo vibrante, innondano l’aria, si lanciano alla vastità del mare e dei cieli. Non odo voce, non vedo persona; è una città che si ridesta freneticamente da un interminabile sonno in quel rapido martellare che si diffonde, si innalza e s’ inabissa. Il promontorio azzurro si allunga serpeggiando nell’ombra — solo, su l’ ultima linea del mare verso la remota testa del Gargano, è ancora il sole: laggiù, simile a due fiocchi di neve, fulgoreggiano le bianche vele di due paranzelle e stanno quasi due occhi aperti da una costa sperduta oltre il silenzio del mare.
Quando ritorno, il cocente meriggio ha arrestato la vita della città ; tutto è quieto, tutto è chiuso, tutto dorme.
Ritorno all’ Hotel Manfredi (perché non chiamarlo così se ciò può far piacere a Don Michele Rosari de Tosquez) e dopo una sommaria refezione vorrei prender sonno se proprio nella mia via un gruppo di fanciulli i quali non sono d’avviso che l’Italia sia la terra dell’analfabetismo, non cantassero, sopra un motivo simile al ronzìo delle pecchie, le lodi della scuola:

— si legge, si scrive,
 si impara di parlare —

Oh se imparassero di tacere !

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Author: Geppe Inserra

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