Monti Dauni, il futuro nelle radici / 2 (di Lello Vecchiarino)

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Ecco la seconda puntata della lectio magistralis sul Subappennino Dauno tenuta da Lello Vecchiarino, all’epoca capo della redazione foggiana della Gazzetta del Mezzogiorno, nella sala del Museo Civico della città di Foggia, su invito del presidente dell’Associazione Amici del Museo, Carmine Tavano, che sarebbe divenuto dopo qualche anno sindaco di Foggia.
Quella di Vecchiarino è una lucida ed approfondita riflessione su quelli che sono oggi noti come Monti Dauni, e che allora erano semplicemente Subappennino. Fu proprio Vecchiarino a lanciare l’idea di eliminare quel deprimente “Sub” dalla denominazione dell’area.
Commentando la pubblicazione della prima puntata (che potete trovare a questo link), Vecchiarino ha scritto (e gliene sono molto grato….): ” Caro Geppe, tu sì che hai capito la forza della memoria. L’idea del suffisso “pre” a formare la parola Preappennino” (che poi decisi di far diventare una testatina della “Gazzetta”, mi venne la sera in cui fui chiamato a presentare a Monteleone di Puglia un pregevole libro dell’indimenticato Leonardo De Luca nel quale pure si affrontava indirettamente il tema di quell’avvilente “Sub”. Erano tempi in cui il giornalismo s’intrideva di passioni e territorio. Tempi nostri, come il titolo di quella testata pugliese dove aveva scritto un nostro comune maestro, Anacleto Lupo.” 
Buona lettura. (g.i.)

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Io non so se le nebbie della Val Marecchia consentono più che altrove spazio alla fantasia, ma conosco, per esempio, la nebbia dell’Alta Valle del Celone che stinge i paesini come se fossero affogati in un bicchiere di acqua e anice.
E LA FANTASIA galoppa e si fonde con la cucina delle tradizioni, con i vagiti della natura, con l’incanto di un silenzio che a volte fa rumore.
E dove lo mettete il SUBAPPENNINO DEI SAPORI? Quello dei colori, peraltro insidiato dall’anticorodal che imperversa come l’insipienza di certi sindaci? E il fascino delle feste religiose, le fiere strapaesane?
IL FASCINO DEL SUBAPPENNINO È PER TRE QUARTI MEMORIA, ma quando la memoria, come l’occhio, si fa miope e va alle cose vicine e svanisce su quelle lontane: allora è tempo di allarmarsi. Allora è tempo di un falso fascino che nemmeno il ricorso alla fabula può rinverdire.

CAPIRE IL SUBAPPENNINO significa capire quel tanto di se stessi legato alle radici. E badate bene che in queste zone il tempo non si è fermato: ha soltanto subito un rallentamento, sicché una volta il Subappennino era zavorra, ora si è fatto moda. Ma questa trasmutazione contiene un grave rischio: chi viene dalla città il Subappennino lo vuole povero, rustico, arretrato in tutto tranne che nei servizi: perché ormai fa tanto alta borghesia trascorrere il fine settimana tra i forzati del mancato sviluppo. Ma le mode, si sa, sono come i tram,  vanno e vengono: sicché a certi improvvisati cercatori di radici gli si può consigliare soltanto le dosi per un decotto.
È difficile capire, far capire, che per amare il Subappennino diventa giocoforza anche votarsi al suo pessimismo, alla sua pigrizia e alla sua frenesia. Da queste parti tutto è dispari, e pochi si accorgono che il meglio della vita è gratis. Questi sono luoghi dove prima del boom economico la povertà era vissuta con silente dignità. QUANDO NELLA CASA DI UN CONTADINO si mangiava brodo e carne di pollo, delle due l’una: o era malato il contadino o era malato il pollo.
Come la vita, il Subappennino è sommatoria di contraddizioni, e non dobbiamo meravigliarci, ma piuttosto riflettere, per esempio, se da queste parti i giovani sono tristi perché vedono che il tempo lavora contro la loro indignazione. E quand’anche s’indignassero lo farebbero attraverso una lingua – la nostra lingua – buona soltanto per far domande in carta da bollo. Qui le maggiore industrie sono i municipi, il resto è avventura, attesa, campagne abbandonate.
GIÀ LE CAMPAGNE ABBANDONATE : chi ha passato una vita a coltivare la terra, lo ha fatto in sacrificio per far studiare i figli che ora, con tanto di diploma in tasca, sono disoccupati. Loro in campagna non andranno a lavorare, non la conoscono, non saprebbero da che parte incominciare, dovranno emigrare. E la terra? Quella sarà venduta. Chi la compra? Il vicino di fondo. È una fotografia tanto classica quanto frequente: provate a moltiplicarla, otterrete quello che già da oggi possiamo chiamare il NEOLATIFONDISMO che inevitabilmente nascerà da qui a qualche anno.
È LA STORIA CHE RITORNA. Queste sono le riflessioni che annichiliscono. E quando i paesi saranno svuotati perché i vecchi muoiono, i bambini non nascono perché i giovani emigrano? Cosa accadrà? Le risposte si possono anche intravedere, ma fanno paura. Tristezza.
UNA TRISTEZZA che gratta gratta te la ritrovi sotto metafora e in contrappunto anche nelle cose liete, nelle parole che per comune ammissione evocano letizia.
Eccovi un’altra perla del modesto campionario.
SAPETE TUTTI COS’È LA CUCCAGNA? Bene, in un paese del Subappennino, la FESTA DELLA CUCCAGNA È TUTT’ALTRA COSA di quella che avete immaginato. Durante la festa del Santo Patrono, a una certa ora della giornata, viene tirata fuori dalla sagrestia della chiesa una fontana fatta di legno e ricoperta di stagno. Due tubi di gomma collegano quella fontana, collocata nella piazzetta, a due grossi recipienti nascosti nella sagrestia.
A un certo punto e al segnale convenuto la folla vedrà zampillare dai fori della fontana alternativamente latte e vino: segno di abbondanza. Nel contempo da un balcone (è il balcone della chiesetta: forse l’unica chiesa al mondo che si trova al primo piano di un palazzotto) c’è chi si incarica di gettare sulla folla pane, fave, formaggio e cipolle. È testimonianza di abbondanza, e ciò avviene in un paese del nostro Subappennino che ogni anno l’Istat colloca al primo o al secondo posto nella classifica dei paesi più poveri in Italia.
Ma non è questa la contraddizione sul quale vi invito a soffermarvi. Ciò che mi intriga – ma non vorrei mai che quella festa subisse cambiamenti – è che quella festa evoca ciò che il marchese del luogo fino al 1700 faceva dal suo balcone: per gentile e graziosa concessione sfamava gratis gli abitanti del Marchesato. È un pezzo di storia che ognuno, almeno per quell’atto, vorrebbe rimuovere. Invece è festa. Della Cuccagna. Voi la chiamereste ancora Cuccagna?
Lello Vecchiarino
(2. continua)
La prima parte è stata pubblicata sabato, 22 ottobre 2016, ed è disponibile a questo link.

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Author: Geppe Inserra

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