L’autore della Genesi, Deredia, reinterpreta le Stele Daunie

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Ha fatto molto discutere ed ha appassionato l’opinione pubblica cittadina lo scempio, per fortuna risanato a tempo di record, della Genesi di Jorge Jimenez Deredia, la stupenda statua con cui la Provincia ha voluto adornare l’ingresso della sua nuova sede, in via Telesforo.
Fu l’allora presidente della Provincia, Antonio Pellegrino, a motivare le ragioni che l’avevano spinto ad acquistare l’opera, sottolineandone il particolare valore simbolico: “Voglio augurarmi che quest’opera abbia per Foggia e per la sua provincia il significato di un nuovo rinascimento. Voler rinascere come città, voler rinascere come provincia, come istituzione voler augurare un progresso alla nostra terra. Questa statua racchiude in sé tutti questi significati: gli occhi socchiusi della donna sono occhi che vedono lontano e la dicono tutta sul profondo significato da dare alla nostra terra, ai nostri sogni, alle nostre speranze.”
Pellegrino pronunciò queste parole al termine del suo doppio mandato presidenziale, che lo avevano visto al timone di Palazzo Dogana: nove anni, dal 1994 al 2005, che avevano visto la Provincia particolarmente impegnata sul versante della cultura e dell’arte, per cui l’ottimismo manifestato dal compianto chirurgo prestato alla politica sembrava più che fondato.

In realtà, è la Genesi stessa ad avere un particolare, altissimo valore simbolico: per il suo enorme valore artistico ma anche per la storia che ha preceduto, accompagnato e fatto seguito al suo acquisto ed alla sua installazione. 
GENESI, SIMBOLO DEL RINASCIMENTO FOGGIANO
Deredia è uno degli scultori emergenti del panorama artistico internazionale. Le sue sculture sono esposte praticamente in tutto il mondo, è il primo artista non europeo ad aver realizzato un’opera per piazza San Pietro, la statua di San Marcellino Champagnat, e ha recentemente esposto a Roma in un mostra che ha mobilitato come luoghi espositivi i maggiori monumenti della Capitale. 
L’incontro tra Pellegrino e Deredia provocò un autentico amore a prima vista tra i due personaggi, che a sua volta fece nascere nello scultore costaricano un amore profondo verso Foggia, la Capitanata, la loro cultura e… i loro simboli.
Ho avuto il privilegio di prendere parte attiva a questo affascinante processo.  Per sottolineare il senso culturale ed identitario che stava alla base di quella operazione, Pellegrino aveva voluto che l’inaugurazione del gruppo bronzeo fosse accompagnata da un evento celebrativo, con la pubblicazione di un libro e la realizzazione di un documentario, affidandomene la realizzazione. Dovendo lavorare a tappe forzate, perché i giorni che mancavano alla inaugurazione erano veramente pochi, non avemmo tempo per prepararla: prima della registrazione ci eravamo sentiti soltanto una volta a telefono, ma soltanto per fissare tempi e modi del nostro appuntamento. Arrivai a casa sua, giusto al confine tra Toscana e Liguria, dopo un viaggio in macchina più lungo del previsto, la luce era perfetta, ma il tramonto si approssimava. Non ci fu neanche il tempo per prendere un caffè, subito le presentazioni formali e la macchina da presa cominciò a girare. Ma fu tale l’intensità di quella intervista che quando finimmo la prima parte, realizzata in esterno eravamo già amici.
Qualche mese dopo, ebbi l’onore di accompagnarlo in un viaggio alla ricerca dei possibili simboli della Capitanata, il cui “mandante” era ancora una volta Antonio Pellegrino. L’acquisto della statua era stato motivato dalla volontà di lasciare un simbolo, una testimonianza di ciò che la presidenza Pellegrino aveva rappresentato per la Capitanata: un nuovo inizio, ma anche un ritorno alle radici, simboleggiate dalle morbide sfere scolpite dallo scultore costaricano. Ma adesso il presidente volava ancora più in alto: aveva invitato Deredia a Foggia affinché potesse ritrovare le tracce dei suoi possibili simboli ancestrali. E mi incaricò di fargli da cicerone, compito che accolsi ancora una volta con entusiasmo. Tra una tappa e l’altra, trovammo modo di completare l’intervista cominciata a Mollicciara: da quegli appunti nacque un libro a quattro mani, Genesi, ponte di luce.
Ma prima di raccontarvi del viaggio, è il caso di aprire una parentesi per riflettere bene sul significato di una parola – simbolo – che come sovente accade con i termini che vengono usati troppo frequentemente, finisce con il perdere il suo valore originario.
Nei vocabolari moderni, la parola “simbolo” significa segno, qualcosa che sta al posto di un’altra, e la evoca. Ed è il significato del termine che si è imposto grazie all’uso che ne hanno fatto soprattutto i filosofi, come Hobbes e Pierce.
Nel linguaggio e nel sentire comune, percepiamo il “simbolo” come un valore più forte dell’essere semplice “segno”: il simbolo è qualcosa che rappresenta, che svela e sintetizza  un’identità. Diciamo di una cosa che ha “valore simbolico” quando immediatamente ci riconduce ad un’altra, più ampia. Questo significato è più vicino alla etimologia della parola, che deriva dal greco sunbolé che letteralmente significa mettere assieme. Come scrive bellamente Martino Sacchi nella sua Introduzione alla Filosofia (Il Filo di Arianna – Rivista on line per la didattica nelle scuole superiori), “in origine “simbolo” era un oggetto diviso in due: due persone, fossero ospiti l’uno dell’altro, oppure due pellegrini che si erano incontrati in un santuario lontano dalla patria comune, o ancora due innamorati costretti a una lunga lontananza, ne conservavano ciascuna una parte. Riaccostando le due parti e ricomponendo l’unità perduta, i due protagonisti riconoscevano, incontrandosi, i legami che li univano. Presso gli antichi greci i “simboli” erano dei segni di riconoscimento che consentivano ai genitori di riconoscere a distanza di tempo i figli esposti.”
SIMBOLI PER TROVARE IDENTITÀ PERDUTE
L’idea di Pellegrino di affidare a Deredia la ricerca dei “simboli possibili” della Capitanata era un’altra delle folgoranti intuizione del presidente. Non si trattava di un’operazione puramente estetica, ma di una idea forte di futuro.
Negli ultimi anni, stiamo assistendo in Capitanata a lodevoli tentativi di agganciare il futuro delle comunità locali alla loro identità, di progettare e costruire il futuro fondandolo sulla riscoperta del passato, sulla valorizzazione delle proprie radici. Guardare alle proprie radici non è un’operazione di facciata o un cedimento alla moda culturale del momento: le comunità locali della provincia di Foggia che stanno crescendo maggiormente sono proprio quelle che stanno più convintamente puntando all’identità, al suo consolidamento. Una identità forte sprigiona simboli: così Ascoli Satriano, città dei grifoni policromi, o Accadia, città dei Fossi e della “grande madre”, o Orsara, città della musica, mentre Pietramontecorvino e Sant’Agata di Puglia hanno riscoperto e rilanciato la loro identità attraverso i loro monumenti più rappresentativi, i castelli i i borghi antichi.
Una comunità che vive consapevolmente la propria identità non ha grosse difficoltà a trovare i propri simboli. Ed è quanto accade nei comuni della Daunia che stanno tessendo nuove prospettive di sviluppo.  Nelle comunità in cui l’identità e il senso di appartenenza sono invece stemperati, è più difficile rintracciare simboli, e spesso accade che questi – che dovrebbero affiorare spontaneamente – vengano invece affidati alla creatività di pubblicitari e grafici. Non si tratta di progettare uno stemma o un logo, ma di verificare se e quando le radici che scolpiscono l’identità abbiano generato simboli.  
Quel viaggio con Deredia sottendeva una sfida importante e profonda, visto che uno dei problemi più grandi che la provincia di Foggia incontra nelle sue dinamiche di sviluppo sta proprio nella difficoltà di sentirsi una sola cosa, di condividere una identità. Quante volte abbiamo sentito che la Capitanata è una provincia-regione? Tesi verissima se pensiamo alla estensione territoriale, alla varietà di culture, linguaggi, paesaggi. Ma della regione non abbiamo appunto il senso dell’appartenenza.
IL MIO VIAGGIO CON JIMENEZ DEREDIA
Per ritrovare i simboli ancestrali della Capitanata, non poteva esserci un cercatore di tracce migliore dello scultore venuto dal Costarica a coniugare la semplicità e lo spirito delle sfere degli Indios Borucas con la sontuosa solennità del Rinascimento.
Mi ha fatto molto piacere scoprire, riordinando gli appunti per questo articolo, che nella pagina del suo sito dedicata alla produzione libraria  su Deredia campeggia la quarta di copertina del nostro libro, in cui scrivevo: “Molti uomini hanno affidato alla filosofia, alla matematica, alla poesia, ed alla letteratura la manifestazione del loro pensiero. Jiménez Deredia lo fa attraverso la scultura. La più fisica delle arti diventa metafisica; in Deredia, la trasformazione del marmo e del bronzo è metafora del processo senza tempo di trasmutazione del Cosmo: materia che prende forma, vuoto che si riempie, ombra che diventa luce.”
La ricerca del simbolo, o più precisamente l’utilizzazione artistica del simbolo in quanto archetipo è il fil rouge che collega tutta la produzione artistica di Deredia. Lo scultore non ha però dovuto sforzarsi più di tanto per cercarlo, perché i simboli veri sono quelli che ci portiamo dentro: l’altra parte di noi, ritrovata la quale ripristiniamo l’intero perduto. Per Jiménez, il simbolo archetipico (che si ritrova tutto nella Genesi foggiana)è la sfera.
Mille e settecento anni fa gli Indios Borucas, una popolazione che abitava l’America Centrale in epoca precolombiana, disseminarono il loro territorio di molte sfere di granito levigato . Deredia le vide per la prima volta che aveva soltanto nove anni, visitando il Museo Nazionale di San José, e comprese che erano quelle l’altra metà dell’essere, il simbolo, il tutto che si ricongiunge. 
Capì anche che quelle sfere non sono soltanto tra le opere d’arte più antiche, magiche, e misteriose che siano state prodotte dalle civiltà antiche. Sono una visione del mondo, l’espressione di una cultura atavica ed ancestrale.  Sulla sfera, e sulle trasmutazioni di una sfera, è fondata la Genesi. Un cerchio che diventa sfera, una sfera che lentamente si trasforma in una figura di donna…
“ Il cerchio – racconta Deredia – richiama valori ancestrali. Nella cultura degli indiani Borucas – che nacque diecimila anni fa nell’America Centrale, e non era mesoamericana, cioè non era né maya né atzeca – il cerchio costituisce una rappresentazione filosofica, esprime una concezione della vita, affidata alle sfere. Questi indios pensavano che il cielo avesse una forma circolare, da cui partiva una forma conica. Prima della costruzione di una casa veniva chiamato lo sciamano, che attraverso un grande rito tracciava per terra un cerchio, che intendeva essere una proiezione, una rappresentazione dell’universo intero. La casa assumeva così anche una dimensione magica, rappresentando l’universo aveva a che fare con il processo di comprensione di cosa è l’uomo, cosa è la sua trasmutazione, cosa è il rapporto che esiste tra il sole, il cielo e l’interiorità di ognuno di noi. In tutte le civiltà alle quali è comune, il cerchio è un simbolo che rappresenta il  processo con cui l’uomo ricerca se stesso.  Dal punto di vista della psicologia analitica, la circonferenza è simbolo di equilibrio e di armonia: il momento in cui l’uomo riesce ad integrare tutti i contrari che ha dentro di sé.  La circonferenza non è un elemento statico, ma sta piuttosto ad indicare un cammino, un processo: quando l’uomo cerca di capire il proprio essere inizia un percorso di comprensione di tutte le componenti che vivono e convivono dentro il sé.”
IL CERCHIO, ESPRESSIONE DELLA RICERCA INTERIORE DELL’UOMO
La Genesi , e il racconto di trasmutazione che esprime, rappresentano quindi l’approdo di un lungo percorso di riflessione e di ricerca compiuto da Deredia: “La Genesi – sostiene – scandisce una tappa fondamentale del mio lavoro perché è il punto di approdo di una lunga ricerca interiore, perché esprime, o almeno cerca di esprimere, il senso di partecipazione cosmica che sta alla base della storia dell’uomo. La sfera da cui parte l’opera sta a indicare la nostra storia. Noi veniamo dalle stelle, e dal big bang ad oggi, abbiamo vissuto un lunghissimo periodo di trasmutazione,  finché nella storia dell’universo abbiamo raggiunto lo stadio che possiamo vivere oggi. Ma tutta questa storia è scritta già dentro di noi, è scritta dentro l’universo. È per questo che La Genesi parte da una sfera per approdare, dopo le diverse  trasmutazioni, alla figura umana. Descrive il processo che porta a prendere coscienza del proprio percorso storico e del proprio percorso cosmico.” Per Deredia, la missione dell’arte è “recuperare gli archetipi, le immagini che vivono dentro l’uomo e rappresentarli attraverso la pittura, la scultura, la musica la poesia, attraverso tutto quello che può darci speranza; l’arte deve offrire una possibilità di redenzione. Io credo in questa possibilità, me lo dice la mia fede, la mia arte: sono convinto che ogni possibilità di redenzione dell’uomo passi per la comprensione della immagine più profonda e spirituale.”
Il simbolo, appunto. “L’uomo ha formulato sempre i simboli. Pensa alla colonna. Non è un semplice elemento architettonico. C’è una grande differenza tra un pilastro ed una colonna. Il pilastro è un elemento strutturale, che non dice niente, la colonna provoca invece emozione. La colonna è basata sul cerchio, e riprende un archetipo ancestrale: il senso dell’albero. La colonna rappresenta l’albero, perché l’uomo nella sua evoluzione ha vissuto milioni di anni sugli alberi, nel suo processo evolutivo. L’uomo ha bisogno di ricostruire, attraverso i simboli, l’inconscio collettivo. Vivere sugli alberi e tra gli alberi ha influenzato la morfologia dell’uomo, per esempio collocando gli occhi davanti al volto, e non di lato; allo stesso modo, ha impresso tracce nel suo inconscio, che diventa inconscio collettivo. Ecco cosa intendo dire quando affermo che portiamo dentro di noi il nostro processo evolutivo, attraverso le immagini. Abbiamo perciò bisogno di costruire o ricostruire dei simboli che rappresentino questo processo. La colonna è un simbolo per eccellenza. È stata e sarà sempre rimaneggiata, perché va ben al di là di una semplice rappresentazione estetica, non è né pura bellezza né semplice elemento funzionale, come può essere un pilastro. È piena di tutti questi simboli che vivono dentro di noi. Quando la colonna viene ripresa nel Rinascimento viene rimaneggiata, viene riarticolata ma non perde quella dimensione, quel senso umano, di rappresentazione del processo evolutivo che già i Greci ed i Romani avevano scoperto e rappresentato attraverso la simbologia del cerchio, dell’albero, della foresta. Il Palladio riprende in un Rinascimento molto avanzato la colonna, collocandola in senso binario e dal Rinascimento la colonna si diffonde in tutto il mondo, all’Inghilterra, fino all’America: Washington è interamente costruita con le colonne. Così possiamo capire ancora meglio quanto sia importante vivere i simboli, non a livello razionale, ma emozionale ed intuitivo: i simboli sono verità che vive dentro di noi.”
UNA NUOVA INTERPRETAZIONE PER LE STELE DAUNIE
Dopo l’inaugurazione della statua, la presentazione del documentario e del libro, eccoci dunque in viaggio per la Capitanata, alla ricerca dei simboli, degli archetipi possibili di questa provincia-regione alla ricerca di una identità. La prima tappa è Lucera, dove visitiamo il Duomo accompagnati dalla direttrice del Museo. Poi ci spostiamo a Troia, ed a sentire della nostra ricerca simbolica, don Mario Maitilasso, eccelso studioso dei tanti simboli allegorici che adornano la facciata della Cattedrale, va in brodo di giuggiole, tenendoci una autentica lectio magistralis sull’ineffabile romanzo di pietra raccontato dalle numerosissime sculture che punteggiano il Duomo romanico.
Deredia rimane affascinato dalla Capitanata medievale, dalle asimmetrie del rosone, dal tesoro della Cattedrale, ma capisco che non stanno nella Capitanata medievale i simboli che cerca, quelli che svelano l’identità. Le sculture allegoriche che don Mario così suggestivamente ci ha raccontato, svelandone il mistero, sono già il prodotto di una mediazione culturale che poco ha a che fare con gli archetipi. “Il simbolo – ripete Deredia – deve affiorare dall’interno di noi stessi, deve parlarti spontaneamente.” 
L’ultima tappa del nostro viaggio, al mattino successivo, ha per meta il Museo Nazionale di Manfredonia, il Castello Svevo, e in particolare le Stele Daunie. Mentre comincio a pensare che questa terra non abbia simboli, oppure che li abbia perduti attraverso le tante vicissitudini che ha dovuto sopportare, ecco il viso di Jimenez aprirsi in un radioso sorriso. 
“Ecco i vostri simboli”, mi dice additando le Stele Daunie. Ma con mia sorpresa non si riferisce alle immagini che le mani di ignoti artisti hanno scolpito sulle antiche pietre funerarie. Deredia indica i fregi che circondano le scene raffigurate in bassorilievo, spiegandomi che non si tratta di fregi, bensì dell’espressione dei simboli che quegli artisti si portavano dentro. Ecco le svastiche, simbolo del sole, ecco gli immancabili cerchi. “Spesso quello che pensiamo sia un fregio, un ornamento – spiega Jimenez – è in realtà un’espressione artistica primordiale, simbolica.” 
Peccato che le Stele Daunie non siano ancora mai state studiate sotto questo punto di vista. E peccato anche che dopo questo viaggio, le occasioni di incontro tra Deredia e la Capitanata si siano diradate. Ma studiare il valore simbolico dei presunti “fregi” delle Stele Daunie, è una sfida culturale che andrebbe raccolta. Perché quei simboli possano tornare a parlare, a restituire identità, a sprigionare senso di futuro.

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Author: Geppe Inserra

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