Classi sociali a temperatura ambiente / 2 (di Pasquale Soccio)

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Pubblichiamo la seconda parte del racconto di Pasquale Soccio, Classi sociali a temperatura ambiente, uscito sul periodico Il nuovo Risveglio, diretto da  Gaetano Matrella, che mi fece dono delle annate rilegate. Un regalo che custodisco con gratitudine ed affetto, una miniera di cose belle, che mi piace di tanto in tanto condividere con gli amici e i lettori di Lettere Meridiane.
Come questo bel racconto di Soccio, che fu uno degli intellettuali di maggior spicco del Novecento meridionale. 
Chi l’avesse persa, può leggere la prima parte cliccando qui.
Buona lettura.
* * *
Il suo incanto attentissimo proruppe in un sospiro di liberazione: «Rimpianto e nostalgia di un mondo scomodo ma bello, mentre comodo e desolato è questo tempo tecnologico, sia pure con i suoi fornelli elettrici, frigoriferi e aria condizionata, senza parlare di radio e televisori che gracchiano e rendono più squallida la solitudine, ponendo un’intercapedine tra gli stessi familiari, nelle interminabili ore di ascolto e di video, nel vano di un sala.
Altro tempo e altri ascoltatori e altri commensali in dolci conversari senza pensare all’urgenza delle ore.
Sì, in quel tempo famigli e familiari eravamo tutta una cosa; e con essi, la vasta rete degli amici che si mobilitava nei giorni tristi e festivi».
(E qui la mente corre al ricordo di un’altra opportuna lettura: a « un forte desiderio di epoche passate »).

« Era dunque possibile, allora, immaginare un gruppo di persone che conduceva un’esistenza così invidiabile, invidiabile per l’intensità dei sentimenti che le tenevano unite, invidiabile per lo spazio che tali sentimenti avevano nel mondo che le circondava e per l’armonia che regnava tra loro. Oggi, una simile armonia è impossibile immaginarla. Ci sembra che, se fossimo nati allora, avremmo amato la vita, mentre oggi non la amiamo affatto.
Soprattutto vorremmo avere, con balie, servitori e giardinieri e contadini, quel tipo di rapporto che era in uso allora, fermamente installato nella sensazione, oggi completamente scomparsa dalla terra, che il comandarli ed esserne obbediti era cosa ovvia, legittima e naturale ».
Pur notando l’inesorabilità di un ritorno, « la nostra stupida, intontita fantasia » oggi « non vi trova nessun luogo dove star bene, non vi trova un angolo dove sedersi, e le sembra che là, nello altro secolo, aveva tutto quello che non ha qui, aria, silenzio, spazio e riposo».
Questa forma di vita defunta ora « noi la detestiamo. Detestandola, ci accorgiamo però di detestare una parte essenziale di noi stessi, e cioè noi stessi …
Così ci abituiamo a pensarla come un paradiso perduto, un tempo benedetto in cui tutto era più alto e più civile; e una simile sensazione, che il bene fosse nell’epoca trascorsa e il male nel presente.
La nostra fantasia però non è stata buona a crescere, e sempre è l’altro secolo il luogo dove le sembra che sarebbe stata pienamente felice » (Natalia Ginzburg, Quel desiderio dell’altro secolo, « Corriere della Sera », 12 giugno 1977).
Allora, una tranquilla pace in un tempo disteso e una solida sicurezza di vivere erano dunque, garantite dalle « tranquille opere de’ servi » leopardiani).
« Pensate » — continuava la sua malinconica melopea — « non avevamo frigoriferi ma c’era la solerzia puntuale dei nostri domestici. Questa casa ha una profondità scavata nel sottosuolo appena inferiore a quanto emerge dal piano terra: una vera catacomba con scale e scalette, andirivieni e cantina con botti colme di vini pregiati di’ nostra produzione e con la canonica temperatura ambiente ».
Il sospiro di attenzione e di sollievo questa volta fu mio, ma egli con aria di trionfo incalzò: « Ma se c’era differenza di temperatura nei vari piani, non c’era differenza di classe sociale tra noi, parsone di casa, se non in una sola cosa: nella bevuta dello stesso vino ma in tempi diversi. Ecco: dopo ogni portata i nostri famigli salivano sollecitamente dal fondo della cantina e ci servivano del vino appena spillato, fresco e adatto alla pietanza dovuta. Alla seconda portata si ripeteva la stessa scena, col frettoloso risalire dal fondo di giovani titanti con un altro vino sempre appena spillato, mentre quello che rimaneva o avanzava a tavola, già servito dopo la prima pietanza, esposto al calore della stagione e della sala, passava, ma bevuto con eguale piacere, ai nostri improvvisati camerieri; alacremente divertiti anche loro da questo giuoco e dallo scendere e salire tante vòlte per le stesse scale ».
« Senonché » — gli osservai scherzosamente — « a ben pensarci, pure in un così esemplare livellamento sociale nei cordiali e intimi rapporti domestici e familiari, in questa casa resisteva tuttavia una differenza di classe riscontrabile nel grado di freschezza del vino bevuto. Cosicché con l’arsione di questo luglio di fuoco, il termometro doveva segnare salti verticali nella temperatura ambiente del vino a danno delle classi inferiori ».
« Ma no! » — ribatté con fermezza — « Mi ascolti; devo ribadire che queste inezie, almeno allora, ai nostri familiari e famigli non passavano « manche p’ a capa ». Tutto era accettato con ovvietà e naturalezza; anzi, con partecipazione consapevole, cooperavano zelanti per onorare degnamente gli invitati; e dopo, tutti in coro avevano un sospiro  di soddisfazione per la riuscita di una festa in famiglia alla quale tutti avevano collaborato. Non nel grado millimetrato di freschezza, ma nella qualità dall’ottimo vino da tutti bevuto, va cercato il comune denominatore democratico; termine quest’ultimo inusuale per quel tempo, ma ben sostituito da quello più estesamente senechiano e comprensivo di umano ».
« Deve considerare anzitutto » — evocava la melopea, proseguendo con accenti memori e accorati — « che in quel tempo una gioia, ancor più, un dolore toccava tutte le porte. Si conviveva in tal modo che tutti eravamo per tutti, spartendoci sonno e veglia; pane e vino; fuoco e gelo; sudore, lacrime e lunghi conviti rallegrati da canti e risate omeriche; lutti e feste comandate dal calendario e dagli onomastici e dai compleanni.
Un anno, era di giugno e ci recammo in campagna. Per le avversità atmosferiche, il raccolto non prometteva nulla di buono: scarsa la messe abbattuta dalle intemperie; i campi ora bruciati dal sole, ora distrutti da un cielo violento dopo i temporali. Sulla aia ci venne incontro il fattore. Sembrava un fantasma, con una faccia da funerale e in mano un grosso fazzoletto per asciugarsi le lacrime. Deplorava e lamentava che il lavoro di un anno era distrutto in una settimana: mai ingratitudine più nera in tanti anni e mai lavoro condotto con tanto amore.
Toccò a me consolarlo e dirgli che comunque il danno era mio e lui tuttavia non avrebbe sofferto giammai le conseguenze. di tanta desolazione. Ma egli invece: « Come! Questa è una creatura nostra che è andata a male, l’abbiamo curata assiduamente e ci è sfuggita dalle mani. È la bellezza di tanto lavoro che ci ho messo e speravo di consegnartela prospera e abbondante per tutti. È così che considero nostra questa terra e desideravo come unico compenso una grande soddisfazione ».
Ed ecco il risvolto a conferma di un reciproco attaccamento non basato sulla venalità. Alcuni mesi dopo in piena notte il fattore ci venne a svegliare: la moglie era moribonda in preda a chissà quale diavoleria. Ci mobilitammo tutti moglie, figli e io, in prima fila con più macchine a disposizione. Chiamammo d’urgenza l’autoambulanza. Partimmo per il capoluogo tutti per disporre le cose all’arrivo dell’ammalato. Bombardammo inesorabilmente di telefonate gli amici che, nonostante l’ora, ci vennero sollecitamente in aiuto. Il caso era grave ma quella tempestiva mobilitazione valse a qualche cosa: la cara donna fu salva. E questo è il bello: il signor fattore voleva pagare tutte le spese sopportate in quella notte e dopo, poiché mia moglie e i miei figli furono accanto all’inferma per tutta la lunga degenza. Altri tempi, altri valentuomini, altri onestuomini: ora, una persona, in due ore di servizio esige calcolare anche il tempo impiegato dalla propria alla nostra casa; e certe volte la distanza usura quaranta – cinquanta minuti sulle due ore ».
Nella graziosa sala da pranzo cadde un silenzio che ci tenne pensosi per molti, interminabili minuti. Non sapevamo più che dirci: superstiti nostalgici di un cimitero di ricordi. Si invocava la presenza di qualche altro ospite. Venne infatti il comune amico che mi aveva promesso di accompagnarmi nel capoluogo verso sera, sperando nella clemenza del caldo. Ci attaccammo a lui come naufraghi a una tavola, scaricando la tensione in discorsi su cose ovvie e banali.
E finalmente il pranzo, l’ottimo pranzo fragrante di cose del buon tempo antico; e « il buon aroma si diffondeva intorno », confortante e invitante.
Coi due giovani sposi a tavola eravamo in cinque. Ma c’era un sesto convitato, non di pietra ma vivo e fremente nel grembo materno, pronto come dardo lanciato oltre il duemila. Mi dicevo: « Beato lui che non avrà memorie, né rimpianti e non andrà alla ricerca del tempo perduto ».
Mi dissi a voce alta rivolto all’amico ospite: « Che rammarico, caro giudice, che ora non ci sono né i molti invitati di una volta, né i molti servi di quel tempo! Ed è un vero peccato perché ora ci sarebbe stato non la cantina ma un frigorifero eguagliatore perfetto anche di ogni minima differenza sociale ».
Ma l’adorabile mio ospite era fermo a una riva remota: i grandi occhi malinconici erano rivolti non a temperatura ambiente, ma a temperie d’affetti e d’ambienti sepolti per sempre.
Pasquale Soccio
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Author: Geppe Inserra

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