Perché ha perso Re Leopoldo

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Erano tantissimi – anche nelle file di quanti hanno votato “no” – gli elettori che guardavano con favore ad una riforma costituzionale che modificasse il bicameralismo perfetto e il ruolo del Senato, e che rivedesse i poteri delle Regioni, tagliando i costi della politica.
La riforma Renzi-Boschi si prefiggeva proprio questi obiettivi, ma è stata subissata da una valanga di “no” che neanche i più ottimisti tra gli oppositori speravano. Che è accaduto?
Il metodo innanzitutto, che, quando si parla di riforme, tanto più di riforme costituzionali, è importante tanto quanto la sostanza. E poi, la presunzione e l’insopportabile supponenza di re Leopoldo e della sua corte. La costante irrisione di tutti quanti non la pensano come lui, trasformati tout court in avversari, se non nemici, da combattere e da abbattere. L’esasperante interpretazione dell’uomo solo al comando della corsa che fa tutto da solo. E, dulcis in fundo, l’ostinato rifiuto a confrontarsi con le rappresentanze di ogni genere e grado: i partiti (perfino il suo stesso partito, praticamente mai ascoltato, la dialettica interna esautorata a favore di kermesse tipo Leopolda), i sindacati, ecc.
Questo atteggiamento è del resto coerente con il pensiero renziano, orientato a privilegiare il rapporto diretto con la gente e con gli elettori, disconoscendo sistematicamente la funzione di mediazione sociale esercitata dagli organismi della rappresentanza.
Ma è un atteggiamento molto pericoloso, perché ingenera una “narrazione” che si allontana progressivamente dalla realtà: è lo storytelling che giorno dopo giorno ha trasformato Matteo Renzi, il giovane e capace sindaco di Firenze che sognava di applicare all’Italia il metodo con cui aveva (positivamente) governato la sua città in re Leopoldo, monarca assoluto, diffidente verso la democrazia, sacrificata sull’altare della velocità e del decisionismo a tutti i costi.
Ma se non ti confronti con nessuno, se pensi che per licenziare la riforma della Carta Costituzionale basti acquattarsi in un ufficio di largo del Nazareno con Berlusconi, il rischio che alla fine si licenzi una riforma senz’anima, scritta male, anzi pedestre, pasticciata, contraddittoria, ingiusta diventa enorme.
Del resto, quanti, tra quelli che hanno votato sì, lo hanno fatto turandosi il naso, “perché comunque è una riforma”, “perché comunque in Italia non cambia mai niente e almeno cambiamo”? (Poco conta se le ingiustizie che andavano effettivamente corrette, gli anacronismi assurdi, tipo la persistenza delle regioni a stutuo speciale, non sono state toccate dalla riforma, anzi sono state rafforzate).
E comunque, se togliete ai sì i voti di quanti hanno votato per la riforma “turandosi il naso” senza esserne del tutto convinti, se aggiungete l’abnorme pressione mediatica esercitata dai padroni dell’informazione pubblica e televisiva per sostenere le riforma, avrete ancora più chiaro il quadro della enormità della sconfitta politica di Matteo Renzi. Anzi, di Re Leopoldo.
Le avvisaglie c’erano tutte, del resto. La riforma delle Province firmata da Delrio è stata una pessima riforma. La madre di tutte le pessime riforme. Ha colpito a vanvera, sottraendo ai cittadini servizi essenziali, soprattutto nel Mezzogiorno, in molti casi – come quello della Provincia di Foggia – desertificando o quasi le istituzioni culturali.
Gli Italiani ci hanno messo una pietra sopra. Meno male.
G.I.

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Author: Geppe Inserra

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