Viscardo di Manfredonia, la sesta puntata del romanzo

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Eccoci alla sesta puntata del romanzo Viscardo di Manfredonia, pubblicato a puntate da Lettere Meridiane. La storia raccontata dall’autore, lo scrittore e filologo pugliese,  Francesco Prudenzano, entra nel vivo. 
La morte della moglie del barone di Montesantangelo, Raimondo Della Scala, sembra destinata ad infrangere gli equilibri e in particolare sembra destinata a vanificare il desiderio espresso dalla donna prima della sua morte: che mai sua figlia, la bell Gabriella, andasse in sposa al duca di San Giovanni Rotondo, persona malvagia e diabolico.
Ricordo che potete trovare a questa pagina del blog (cliccare sul collegamento per accedervi) le puntate precedenti, con il relativo riassunto, una scheda critica e l’elenco dei personaggi. Buona lettura.
CAPITOLO VI
Sorgeva l’alba del giorno
vegnente, e le campane della chiesa maggiore di Montesantangelo, dopo aver dato
i tocchi dell’Angelus,
destavano gli addormentati abitanti, annunziando collo squillo lamentoso e
lento l’accaduta sciagura. Alle quali facevano eco quelle de’ conventi e delle
principali confraternite.
Nel mezzo d’un’ampia stanza, vestite le pareti di
nero velluto, trapunto d’oro e d’argento, sorgeva una base piramidale, sulla
quale, accolta in ricca bara, riposava la salma di Eleonora. Molti ceri le
ardeano intorno, e la gente commossa accorrea nelle sale del castello a
visitare la sua Signora: ed usciva mandando un sospiro, e mormorando fra le
labbra la preghiera de’ trapassati.
Per le vie, per le case de’ ricchi e de’ poveri,
e per le botteghe degli operai e de’ mercanti di altro non si parlava, se non
della precoce irreparabile perdita. E non v’era chi non la piangesse di cuore,
pensando alla morte, e della soccorritrice de’ poveri , e della madre provvida
di tutto un popolo. E s’ andavan l’un l’altro rammentando le virtù infinite
dell’estinta; e come suole accadere in casi simiglianti ognuno si sforzava a
farla da narratore e porre in luce fatti eh’esso reputava saper egli solo, ma
invece trovava esser già noti e popolari. E veramente la fama che si leva dalle
buone opere, si spande e penetra da per ogni dove, come l’acqua nelle viscere
della terra. E ad onta degli spiriti melensi e velenosi che si attentano
distruggerla, od almeno incepparla nel suo corso; ella a guisa di torrente impetuoso
a avanza fremendo, atterrando argini e dighe, finché si precipita e si diffonde
nell’ampio oceano del mondo.
In capo al terzo giorno i canonici della
cattedrale, i frati de’ conventi, ed i confrali [confratelli]di tutte le
confraternite, colla buffa [cappuccio] calata sul viso, armata la croce ,
ciascuno intorno al proprio gonfalone, s’ avviarono al castello a rilevar la
defunta. Nella corte c’ erano schierati sotto l’armi i soldati del barone,
fanti e cavalli : i quali rendendo gli ultimi onori alla loro signora,
circondarono il letto di morte e l’accompagnarono , avendo i moschetti e le
picche a rovescio.
Il sole era velato da folte nuvole, e l’aria
anch’essa era malinconica e grave. La funebre processione girò per le
principali strade della città e incedendo lenta le rischiarava col lume di
tetri ceri. Immenso popolo la seguiva silenzioso e in pianto, e la gente
accalcata al suo passaggio, chi nelle vie, e chi dalle finestre o dalle logge,
o sotto l’uscio della casetta le povere popolane co’ bambini in braccio o
attaccate alla lor gonna, guardava commossi da pietà profonda tale spettacolo,
mormorando tacite tra lor labbra la preghiera del riposo eterno.
Le campane della basilica ne lamentavano anch’
esse con tocchi lugubri e lenti la morte della Signora. Le pareti del tempio
eran tutte parate a nero: la porta maggiore era spalancata, ed ornata nello
esterno di funebri drappi; in mezzo ai quali sorgeva una grande iscrizione, che
diceva:
 IL CLERO ED IL POPOLO
CHE NELL’ESTINTA SUA SIGNORA

PERDEVANO
LA MADRE E L’ANGIOLO
RENDONO A QUELLA BENEDETTA
PUBBLICO TRIBUTO D’AMORE E DI
PIANTO
——
OH ELEONORA CRIMELDA
TU CHE SEI NEL CIELO

VOLGI ANCORA UNO SGUARDO
SUI MISERI FIGLI
Il corteggio entrò in chiesa, deponendo nel
centro della navata di mezzo, su maestoso catafalco, o trofeo d’ armi e
bandiere, quivi innalzato, la bara. Le esequie furono sontuose e sovrane, ed
il popolo v’ assisteva affollato sino all’ultimo. La nobiltà del paese e le
autorità civili e militari v’eran tutte presenti e vestite a bruno. Dopo la
messa un sacro oratore lesse il funebre elogio ; e colla esposizione delle
virtù dell’illustre estinta che andò l’una all’altra rannodando, commosse fino
alle lacrime tutti gli astanti. E poscia che il celebrante fe’ la benedizione alla
morta, aspergendola coir acqua benedetta, intuonò l’ultimo requiescat
accompagnato dal suono grave dell’organo. Ed il popolo ripetuta la preghiera ,
facendo sull’ urna il segno di pace colle due dita delia man dritta , usci
mesto e taciturno dalla chiesa.
La sera dopo il tramonto del sole, veniva la
spoglia di Eleonora trasportata nella chiesetta del castello, e quivi deposta
nella tomba di famiglia.
I parenti tutti ed i magnati del paese, seguiti
dagli uffiziali e dal magistrato , entrarono nelle sale del castello, a
consolare della loro presenza il barone e la sua figlia.
I poveri di Montesantangelo fecero anch’ essi (e
di che cuore!) le loro condoglianze, indirigendo a Gabriella, per mano del
confessore, un pietoso foglio, che diceva:
Al vostro dolore avete compagna la patria e le
lacrime de’ poverelli, che tanti voti innalzano alla sacra memoria della vostra
genitrice. Se essi perderono la loro madre, sperano oggi in voi, Angiolo
benedetto, che tutte, come quella pia, sapete comprenderne le loro miserie !
I poveri.
La fanciulla baciò la carta che conservò con affetto,
ed assicurò Fra Dionigi che le sarebbero stati sempre a cuore i loro dolori.
Il duca di S.Giovanni, anch’esso all’annunzio di
tal morte era salito nell’illustre magione del Gargano, per assistere e
consolare l’amico Della Scala. E ad onta che avesse stimato non esser questo il
momento propizio a disvelar le sue idee intorno alla richiesta di matrimonio
con Gabriella, vide nonpertanto dalle accoglienze avute da Raimondo, che
potremmo impunemente dir liete, essergli assai ben accetto il suo parentado.
Sicché dopo le molte condoglianze e i pranzi funebri, una sera ridotti insieme
a discorrerla di cose di regno, il duca adoperando il suo ingegno scaltro,
voltò per poco quel discorso politico in uno intimo e puramente di famiglia,
per quindi ripigliare il primiero.
Posto il barone su questo nuovo parlare, ripetea
la sciagura avvenutagli, e come l’idea della sua figliuola soletta e senza il
consiglio della madre, la crucciasse e lo tenesse in continuo pensiero.
— Ma se vi decideste invece ad allogarla —prese a
dirgli il duca — gran mercè sarebbe la vostra; che già , a parer mio, la
sviareste da tanto dolore che giustamente l’accora , e rendereste stabile e
perpetuo il vostro potere. Un altro giorno i figliuoli della baronessina vi
sederebbero sulle ginocchia, e cresciuti sotto la vostra influenza, verrebbero
quando che sia a vendicar l’onta che qualcuno de’ numerosi signorotti di Puglia
(e tali parole le pronunziò con sarcasmo marcato , e rompendo in un ghigno )
avrebbe forse in animo rendere al loro avo.
— Quest’ idea la vagheggio da più tempo — rispose
il barone, spegnendo un fosco sorriso che gli si affacciava sul volto — ma tra
miei generi, venutimi spesso in proposta, non mai n’ho rinvenuto uno conforme
al tipo formatomi qui nella mente.
— Pure potrebbe accadere che tal partito vi si
offrisse all’impensata , ed allora voi… .
— Avrei dato volentieri il mio
consenso, quando non sorgerebbero tali ragioni da stornar simigliante affare.
— Alla parola; se questi per esempio fossi io?..
— Voi!… voi!… — rispose maravigliato l’altro
, al quale avea sconvolto il cervello il suono di tale monosillabo —Voi!—ripetè
ancora un’altra volta.
— Io ! — soggiunse il duca, nè più nè meno;
stando ad aspettar la risposta del barone con una certa impazienza, mascherata
da un’aria di studiata freddezza. — Ebbene —seguì dopo un momento, vedendo il
silenzio di lui — io vi domando in ampie forme , e senza aver d’uopo di
procura, la mano della baronessina. Compiacetevi manifestarmi la vostra idea.
— Ma non sarà certo che affermativa — rispose
Raimondo, riscuotendosi da quella specie d’incanto in cui l’aveva assorto tale
proposizione. — E vi dico sinceramente che la mia figliuola non l’avrei
maritata se non con un uomo che fosse pienamente di mia fede. In voi la ho
intera: me ne appello a Dio e alla vostra coscienza…
 — So,
barone, quanto è vero ciò che affermate; e ve ne ringrazio.
— Solo ho da esporvi una difficoltà che per ora
potrebbe affacciarsi, e la sarebbe in quanto al tempo; che orba la povera
Gabriella della madre che amava così affettuosamente, una proposta di nozze la
funesterebbe, anziché renderla lieta. Nè tampoco converrebbe a me, vedovo da
appena un mese, farle ostensiva in questo momento la vostra domanda. Sol che
aspetterete altre poche settimane, e tutto sarà pienamente finalizzato.
— Comprendo bene — disse il duca, ch’era stato
con animo sospeso fin’allora — che la cosa non deve adesso che passar fra noi.
Vi ringrazio però dell’onore che mi concedete, e sto alla vostra parola. — E
gli strinse sorridente e piegandosi un po’ di lato verso di lui la mano, che il barone gli stese,
indovinando la sua intenzione.
— Io vi diceva — riprese indi a poco Raimondo —
che non avrei maritata mia figlia se non con un uomo di mia piena fede ;
affermandovi averla in voi trovala tale. Oravi soggiungo che oltre a simil
pregio io riconosco in voi l’uomo di animo fermo e che nelle mire di governo in
nulla siete da me dissimile; e vi ammiro tanto è vero che sol con voi avea divisato
[pensato di] stringermi in lega politica, e darci così ne’ nostri bisogni
scambievolmente la mano: Temei che tal passo non fosse stato troppo ardito, ora
che c’è nel regno una certa pace…
— Efimera per altro, e passeggiera —l’interruppe
il duca, ghignando e tentennando il capo.
— Precisamente: son queste almeno le apparenze.
Temei, vi diceva che un tal passo non avesse fatto entrare il verme nella
coscienza di qualcuno de’ nostri amatissimi colleghi; — e queste due ultime
parole le carica e le pronunzia con una certa ironia — e chi sa come ed in che
modo l’avessero interpretato , e non avessero a nostra imitazione, conchiuso anch’essi
il medesimo negozio.
— Senza fallo; e vi dico asseverantemente [autorevolmente]
che voi ed io siam l’oggetto delle loro osservazioni continue. Una nostra
visita, una passeggiata, un pranzo chi sa in che modo lo battezzano; e chi sa
in che guardia si mettono.
— Orsù dunque, venendo al concreto del discorso,
vi dico che il nostro parentado toglierà ogni idea sinistra dalla loro mente. Allora
sarà legittimata la nostra lega offensiva e difensiva, e potrem cogliere alla
sprovista un bel paio e più di questi signorotti che ci stanno in punta d’unghie,
e farli correre a gamba battuta non so in qual angolo del Reame a chieder sicurezza
come l’ultimo de’ nostri vassalli, in qualche castello vicino o lontano.
— E starsene per giunta acquattati il dì e la
notte fra quattro mura; come il gufo nelle tenebre — rispose con tuono ironico
il duca; — che qualche galantuomo tra’ nostri Bravi, vestito da pellegrino o da
frate mendicante, gli terrebbe dietro i passi, e gli farebbe da buon maestro la
festa. Va a sapere chi ne pagherebbe la penitenza: qualche povero diavolone
porterebbe senza fallo la pelle del lupo, e dopo una o due settimane di
discussioni innanzi al magistrato, con tre strappate di corda, al giorno, se non
con un giudizio statario, verrebbe strascinato a coda di cavallo per la città,
e tra gli spineti della campagna; o pure impeso per la gola, tirerebbe calci al
vento.
Ambidue ruppero a queste parole in un riso sonoro
e prolungato, abbandonandosi sulle spalliere delle loro sedie.
— Vedete, Ugo — seguì tosto divenuto serio il
barone — voi già rammentale la vecchia ruggine che ha colle nostre case il duca
d’Andria. Sapete benissimo come le sue mire su Terlizzi che si regge a Comune,
sono quelle di farla sua terra , ed allargare in tal guisa il suo dominio. Ora
vi dico sinceramente che se ciò venisse, ad effetto noi avremmo un mal
vicino…
— So quanto volete dirmi: la vendetta m’è potente
bisogno dell’anima! Uniti dunque che saremo, scenderemo all’impensata
sull’audace Terlizzi a coprirlo colle nostre armi, e il duca d’Andria rimarrà
con un pugno di mosche; se pur pure non lo picchieremo alle spalle.
Un lampo di fiera gioia balenò, sul volto del
barone , e parea che a tali discorsi s’andassero spianando le rughe della sua
fronte. Dopo brevi istanti di silenzio continuò il Rocciglione:
— Sento assolutamente il bisogno di sbarazzarci
di qualcuna di queste ombre moleste. Credete voi, barone, ch’io ho dimenticato l’onta
del duca di Rodi? Un masnadiere che data morte al migliore, al piò fido de’miei
Bravi, non avrebbe dovuto trovar suolo che gli reggesse sotto i piedi; ed egli
intanto lo accoglie nella sua terra e gli dà sicurezza.
— Ben dici! Il mal’ esempio è come la febbre di
contagio, che attaccata una volta , è difficile guarirla  se non col ferro o col fuoco, come diceva
Ippocrate parlando di mali ribelli ad igiene. A questi tali non si dovrebbe dar
quartiere; così passerebbe a’ superstiti il ticchio di menar le mani. Non signore;
ci deve esser sempre chi fomenti il malumore: qualche baronetto, o duchino o
marchesino da quattro picche e tre archibugi, credendo d’ingrandirsi, fa il
popolano e accoglie all’ombra del suo castello la schiuma de’ malfaltori.
Quanto staremmo meglio invece se ciascun potente rispettasse i dritti dell’altro.
— Giusta Provvidenza !— esclamò Ugo — come potrei
diversamente vendicarmi dell’onta di quel di Rodi? Vi dico io che di ciò me l’ha
a pagar cara il duca Capece. Per altri ho saputo testè, e con mio
rincrescimento, che quel manigoldo sia uscito da Rodi, e che il conte di
Manfredonia l’abbia assicurato in sua terra.
— Ciò mi dorrebbe, se non avessero falsato la
notizia — rispose Raimondo con una certa aria d1 interesse. —
Sicuramente Viscardo non ha operato collo spirito di ostilità. Egli ci è amico
, ed anche [se] non si associerà con noi nelle nostre conquiste, (lo conosco
troppo!) ci guarderà se non altro le spalle; e noi andrem sicuri e potremo
benissimo, allargare il nostro territorio. Allora chi contro noi!?
— E poi il favore di Sua Eminenza il Cardinal
Borgia, il Vicario della corte di Spagna nel nostro regno , è da nostra
parte…
— Ma, ricordo meglio, a che ci potrebbe giovare?
— l’interruppe il barone, mutando di colore — se l’orizzonte politico si
offusca di nuovo e gli affari d’Europa par che voglian prendere una piega
contraria ai dominatori ?
 — Verissimo;
ma la Francia sempre liberale, questa volta è con noi e ci lascia fare a nostro
talento.
— V’è poco però da fondare sulle promesse di
quelle genti lì, leggieri per indole come sono.
—Vi ripeto — rispose fermo il duca — che la Francia
è in buona armonia colla Spagna, malgrado che l’ apparenza accenni il
contrario. I primi ministri Richelieu, a Parigi, e il conte duca Olivarez de
Guzman, a Madrid, sono quelli che regolano la politica e dispongono ne’ loro
regni; e non i loro Sovrani rispettivi, che per nostra ventura sono mezzo
rimbambiti e lascian fare a chi sa tener le mani in pasta. Nè le due potenze
cattoliche si romperebbero fra loro or che il Parlamento dell’ Inghilterra
protestante, che vorrebbe rovesciare l’autorità temporale del Papa, le guarda
gelosa e indispettita. Richelieu e il conte duca fanno accanitamente da due
anni la guerra ai protestanti, sicché questa volta l’Inghilterra si netterà i
denti senza aver masticato nulla. E poi la corte di Luigi XIII, intenta alla galanteria
e alla vita brillante, s’incarica poco o nulla della politica delle altre
nazioni. Chi volete che dominasse quivi? La Ninon de Lenclos, la Marion
Delorme, la Scarron, e la bella duchessa di Luynes della casa di Rohan,
dispongono del cuore e del braccio del Re. Richelieu è astuto come la volpe, e
politico quanto un Machiavelli; e per non cadere dal posto di primo ministro,
lascia correr l’acqua alla china… Avete letta, barone,  sull’ ultima gazzetta, fatto
importantissimo, ordito tutto dal ministro cardinale ?
— No — rispose secco T altro — vi ascolto—
soggiunse richiamando tutta la sua attenzione.
— Già voi rammentate come si sbarazzò l’anno
scorso del signor di Cinqu-Mars, capo del partito dei Realisti contro quel de’ Cardinalisti; mandandolo alla
ghigliottina, perché questi lo volea far cadere dal ministero.
— Precisamente.
— Or sappiate che il conte di Calais, giovane
prode di braccio e d’ingegno, ma baldanzoso quanto Lucifero in persona, era
molto ben veduto in corte ; sicché dava ombra ad Armando di Richelieu. Il primo
ministro ne immagina una delle sue: gli fa da mano prezzolata nascondere nel
ripostiglio d’un armadio in sua casa alcune carte che rannodavano le fila d’una
congiura, co’ rispettivi catechismi. Lo denunzia come capo della cospirazione
contro il trono, e quindi lo fa sorprendere dalla giustizia. Gli si trovano
queste carte: il conte grida come un dannato, giurando per Dio e pe’ santi, che
son false, e poste fra le sue robe per rovinarlo; ma Richelieu non vuol saperne
nulla. Con tali documenti, naturalmente è provata la congiura, ed in pochi dì,
con un giudizio statario, manda il conte sulle forche.
— Mi sorprende la novità del fatto. Già a quel paese
, ed a’ tempi che corrono, son cosa ordinaria simili avvenimenti.
— Qui per altro c’è ruggine vecchia, perché, dice
la gazzetta , che la duchessa di Rohan , amante del conte di Calais, avea disprezzato
le proposizioni amorose del Cardinale. Egli geloso del posto, e indispettito
del rifiuto, si è vendicato a tal modo; pubblicando per giunta la tresca ch’
era rimasta secreta. Il duca di Chevreuse, suo consorte, ne ha menato il gran
chiasso , e non soffrendo il disonore, ha abbandonato la moglie, e s’è
allontanato dalla Francia, cacciandosi fra le nebbie d’Inghilterra. Ora in
questo parapiglia, Richelieu per conservarsi il ministero, che Iddio glielo
conservi per tutta la vita che gli auguro lunghissima, — soggiunse volgendo gli
occhi al cielo, come volesse implorarne tal grazia — farà fare alla Spagna
quello che gli pare e piace sul nostro reame. Filippo III per non vedersi un
giorno o T altro vacillare il trono, ha ben capito che ha positivo bisogno di
noi ed ha imposto seriamente al viceré che ci avesse in grande stima, e si
tenesse a noi stretto. Eccoci dunque senz’altro a cavallo.
— Per bacco! Ma voi -, caro duca, siete un
demonio incarnato nel far le riflessioni politiche — rispose con ilarità il barone;
stringendogli la mano che gli riscosse più volte. — E propriamente d’uno come
voi ch’ io aveva bisogno!
—Tant’è. Vi diceva dunque dal bel principio, che
Sua Eminenza il Cardinal Borgia, il vicario della corte di Spagna nel nostro
regno, è con noi; ora vi soggiungo che guarda esclusivamente me con occhio di
parziale affezione. Voi già ricorderete benissimo che quando stette nel passato
aprile alla caccia di riserva ne’ reali siti di S. Giovanni, me ne fece solenne
invito, concedendomi l’onore di star sempre al suo fianco, far la posta con lui
al cignale [cinghiale] intanato, e seder quindi alla mia mensa.
— Se mi ricorda!
— Benissimo. Vedete dunque da ciò come noi
stenderemo la gamba a passo sicuro. Avran voglia di gridare questi principotti,
e di reclamare la violazione de’ loro dritti, che noi li accuseremo di
cospirazione contro lo Stato; e ne avrebbero per giunta un capestro alla gola.
L’esempio della congiura de’ baroni sotto il re Aragonese è un gran documento
per le nostre ragioni. Chi sa che non ci verrebbe il destro di far rinnovare la
scena ! Scommetto che non mancherebbe un altro Camillo Porzio a scriverne la
cronaca.
A queste parole il barone dette in uno scroscio
di riso.
— Ma già— riprese il duca — noi ci dilungavamo
dal proposito. Ciò che abbiam parlato verrà di conseguenza e sarà l’elemento
integrale della nostra vita politica. Domani fo conto di partire pel mio
castello, sicché fra non guari [tra non molto] mi attendo l’adempimento della
vostra parola, riguardo al mio matrimonio con Gabriella.
Il discorso era andato a lungo, a segno che la
mezza notte era suonata da gran pezzo. Levatisi i nostri due personaggi e
strettasi la mano, andarono a letto, credo senza che niuno d’essi avesse potuto
chiuder occhio; immaginando in loro mente quasi compiuto, quanto anelavasi da
ciascun di loro.
La mattina il duca partì dopo aver toccato per
sommi capi col barone i discorsi fatti la sera precedente, accompagnati da
proteste e lunghe promesse. 
Ma, e la nostra Gabriella che abbiamo finora
trascurata? tutta chiusa nel suo dolore che custodiva nel santuario dell’anima
con sacro e geloso affetto, era sempre in pianto, orba del suo genio
consolatore, di quella madre ch’ella, dopo Iddio, venerava sulla terra
adorandone il cuore e la mente…
Oh! maledetti, maledetti coloro che rinnegano l’affetto
materno! Chi per noi soffre dolori ed affanni? chi vive in palpiti se vede pallido
il volto del suo bambino; e veglia le notti intere sulla sua culla, sentendone
più col cuore che coll’ orecchio il suono del suo debole anelito? Chi si
consuma e lavora per vestirci e cibarci, e mandarci a’ ginnasi e nutrirci del
Vero la mente? Chi è il nostro angiolo tutelare sulla terra?… Oh care madri,
non sarà mai che il figlio vi abbandoni! E quando l’età vi avrà indebolite, gli
sarà dolce e soave stare al vostro fianco, ed assistervi nelle vostre infermità,
e sostentarvi la difficile vita. E quando Iddio vi avrà richiamate nella sua
patria, sarà d’ultimo conforto al figlio inginocchiarsi riverente innanzi alla
vostra bara, e chiudervi con pietà religiosa gli occhi. E la vostra memoria lo
accompagnerà lungo il cammin della vita, e la preghiera che voi innalzate per
lui al Signore, lo scamperà sovente dalla sciagura. La madre è cosa divina ed
ispirata dal cielo!…
E Gabriella che sentiva altamente tanta nobiltà
d’affetto e di dovere, era divenuta la donna de’ dolori; la quale inconsolabile
di tanto bene perduto, abborriva tutto quanto credeva potesse arrecarle
distrazione, e deviarla dal suo dolore. Involatasi alla vista di occhio umano,
non era in unione se non col padre, colla buona Elena, che piangeva con lei ed
amava come sua sorella, e con Viscardo che non si era da quel giorno
allontanato d’un passo dal castello, confortandola della sua presenza e del suo
consiglio. Ricordevole egli dell’affetto che quella casa sentiva per lui, e delle
ultime parole di Eleonora con le quali raccomandavagli la figlia, sentiva il
giovane cavaliere a tali memorie come una religione nel suo cuore, e crescere
vie più il suo fraterno affetto per Gabriella. E chiamandola dolcemente al
conforto di sante parole, ben sapea blandire l’acerbità delle sue amarezze. Ed
a lei, nata più alla contemplazione e alla preghiera, anziché al social
conversare, la compagnia di Viscardo era di balsamo e di incomprensibile
ristoro. Se non che improvviso accidente venne a stornare quell’ aura di pace
che colla pazienza e rassegnazione veniva ad entrar nel cuore della fanciulla.
Una staffetta spedita da Manfredonia recava
dispacci dell’autorità civile del paese perché Viscardo avesse, in vista di
quelli, a tornare onde domar l’orgoglio d’un ribelle vassallo che aveva attentato
alla pubblica tranquillità. Prese commiato il conte dalla sua amica,
promettendole sarebbe in pochi giorni ritornato.
La mente del signor Della Scala frattanto piena e
ribollente delle idee feudali e di vendette avea facilmente assopito quel po’
di dolore per la perdita della moglie. Onde, parendogli aver afferrata la
fortuna pe’ capelli mercè il parentado che dovea stringere col duca di S. Giovanni,
vagheggiava questo soave fantasma che giorno e notte gli era fisso innanzi all’anima.
E sembrandogli troppo dura cosa vivere a lungo nella sospensione ed incertezza,
decise parlarne senz’altro alla figliuola.
Eran passati circa due mesi dopo la morte di
Eleonora quando Raimondo un giorno chiamata a se Gabriella la condusse nelle
sue stanze, favellandole [parlandole] a questo modo :
— La vita, figliuola mia , non è che un baleno ,
che guizzato appena , sparisce. Già ne avemmo l’esempio in tua madre; e chi sa
che la stessa tomba non debba schiudersi fra poco per ingoiar me nelle sue
viscere. — E in ciò guardatala, si accorse che i suoi occhi brillavano di
lagrime; sicché veduta la mala introduzione pensò temperarne l’acerbo. — Via,
Gabriella, — soggiunse — fa cuore ; non è certo per contristarti ch’io ti
favello a tal modo; ma è pel troppo affetto che io ti ho, e perché voglio far
sicuro il tuo avvenire. Vedi, il mio dominio è esteso, e fra i signori de’
singoli fendi delle Puglie, io sono il più potente, e il più temuto. I miei
nemici gioirebbero alla nuova di mia morte, e tu, povera orfana verresti messa
in bando da questa tua terra, e vedresti le splendide sale del tuo cartello
occupate dagli sgherri dell’ odiato usurpatore.
— E a che queste orribili parole, padre mio? —
rispose spaventata la fanciulla.
— So ben io quel che c’è di sotto; e tu debole
creatura e sola , saresti soverchiata da impeto ostile… Io , si, te lo dico; allor
soltanto chiuderò in pace i miei occhi, quando lascerò che un altro potente
succeda di dritto alla mia dominazione… Gabriella , comprendi ? è uno sposo ch’
io ti destino…
— Uno sposo ! — l’ interruppe la figlia quasi
colpita da un fulmine a queste parole — E mi parlate voi d’uno sposo quando le
ceneri di mia madre sono ancora calde?
— Giusto e santo è il tuo dolore — le rispose
pacato Raimondo — Né credere che sia minore questo mio che mi arde e consuma il
petto. Padre e marito dolente io sono, e s’io ti favellava di nozze, ben sapeva
non doversene compiere ora la cerimonia. Ragion di dominio mi spinse ad
appalesarti la domanda che han fatta della tua mano. Basta dargliene l’assicurazione;
a suo tempo il resto. Un prode e potente cavaliero è colui che me ne fece solenne
dimanda: egli è il duca di S. Giovanni.
Tal nome cagionò un orribile sensazione nell’animo
della giovane, la quale riscossa come da forza misteriosa:
— Possibile! — esclamò coprendosi colle mani il
volto, quasi volesse porre un argine tra i suoi occhi e l’ombra d’un minaccioso
spettro che le si levasse dinnanzi. — Possibile che avete così presto obbliato
il santo odio che avea la madre mia contro un tal mostro !…
— Incauta! — la interruppe acceso il barone. Ma
Gabriella senza sgomentarsi seguì a dire :
—Tanto presto avete dimenticato il suo consiglio
di fuggire il consorzio di colui? Dio! Dio! e mi davate con tanta sollecitudine
nelle mani dell’uccisore della povera Maria Cavaniglia!
— Sciagurata! — soggiunse cruccioso Raimondo —
assai mal pensi di chi pur dovrà esser tuo sposo!
— No, che non sarò mai d’un empio!
— E chi osa giudicarlo?
— La pubblica fama. Io non chieggo [chiedo] che
la libertà di piangere sul precoce fato dell’estinta mia genitrice. Non sono
nata al matrimonio. Solo il pianto e la solitudine m’è soave e di conforto al
cuore.
Il barone volea pronunziar altre parole, ma
ardente di sdegno s’intese come un fuoco nella strozza che gliele respinse e
rincacciò in fondo. E lanciato un fiero sguardo sulla figlia si precipitò nella
stanza contigua, chiudendosi con impeto la porta alle spalle. Quivi passeggiando
con furia e sbuffando di rabbia Possibile ! — esclamava stringendo i pugni —
Possibile che le mie speranze debbano com’ombra svanire?! Sciagurata! ben
saprai se il mio volere ti sarà una legge. — E quindi fermossi in atto di
riconcentramento, piegando le braccia al petto, e chinando a terra i suoi occhi.
E stette muto per alcuni istanti; in un tratto ruppe il silenzio in queste
parole, guardando biegamente il cielo che gli era di contro, quasi un dubbio
venisse ad assalirlo — Fosse mai qualche amore – e un fremito lo prese a quest’idea.
Ma, e chi mai?— E nuovamente chinava muto lo sguardo al suolo quasi volesse rintracciare
e rinvenire quest’essere; ma non sapendolo in alcun modo trovare… — Ah no! —
disse con fiero sogghigno — Guai ! guai se fosse vero! giuro a Dio che uno de’ trabocchetti
del mio castello ne ingoierebbe l’audace nelle sue viscere! —

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Author: Geppe Inserra

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