Il problema non è Renzi, ma il Pd (di Geppe Inserra)

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Da renziano pentito,
e nel momento in cui si sta per consumare l’ennesimo strappo nel tessuto connettivo
della sinistra italiana, mi sento di poter assolvere l’ex premier, almeno in
parte. La cosiddetta minoranza dem – ma lasciatemela chiamare più semplicemente
sinistra –  sta per dire addio ad un
partito in cui in fondo non ha mai abitato, perché il vulnus, il limite sta
nell’atto di nascita stesso del Pd, in quello che il Pd poteva essere, in
quello che il Pd non è mai stato .
Renzi ha cercato di
riempire il vuoto di valori, di tensione ideale del Pd. Lo ha fatto che peggio
di così non si poteva: in modo del tutto personalistico, contrabbandando per
riforme epocali orrendi guazzabugli senza capo né coda, strizzando l’occhio a
Marchionne per litigare un giorno sì e l’altro pure con la gente che del
centrosinistra è sempre stata l’anima: i docenti, i corpi intermedi, il mondo
del lavoro. Ma non si possono pretendere da lui una memoria ed una coerenza a
valori che non ha mai posseduto e in cui non ha mai creduto. Anche per ragioni
semplicemente anagrafiche.
Tutto questa stava
scritto già nell’atto di nascita del Pd. Inizialmente Matteo Renzi mi aveva
affascinato, e come tanti ho pensato che potesse essere lui l’uomo della
provvidenza, in grado di riempire di senso quella idea mai del tutto sviluppata
che è stato il Pd. Non è stato così. Anzi, Renzi si è trasformato presto nel
peggiore incubo vissuto dalla sinistra italiana in questo secolo. Poteva essere
evitato. Se il Pd fosse nato in modo diverso. Ma in fondo, era già tutto
scritto.
Voglio condividere
con gli amici e i lettori di
Lettere Meridiane quanto dissi nell’intervento (che potete leggere più avanti) che
svolsi all’ultimo congresso dei
Democratici di Sinistra, concludendo: “non mi
appassiona l’idea di stare nella sinistra o nell’opposizione interna di un
partito al quale non credo, e che non condivido, e neanche quella di fughe
nella sinistra radicale. Mi arrendo. Resterò Democratico di Sinistra fin quando
esisteranno i Democratici di Sinistra. Poi, resterò semplicemente di sinistra.”
Buon viaggio,
compagni e amici.

* * *
Care compagne, cari
compagni,
è la prima volta che
prendo parte ad un congresso della sezione di Troia, perché è il primo
congresso che si celebra dopo il trasferimento della mia iscrizione da Foggia.
È la prima volta, e purtroppo temo che sarà anche l’ultima: perché questo
partito, il nostro partito, veleggia ormai verso un’altra cosa, che rispetto,
cui auguro ogni fortuna, ma che non mi piace, non mi appartiene e a cui non
apparterrò.
Il termine “partito”
significa fare parte, essere parte di qualcosa che accomuna, e che si condivide
tout court, senza bisogno di fare un congresso o di mettere ai voti. Si
è partito quando – e solo quando –  si
possiede una identità comune, che nasce dal sentire comune e dal vissuto di
poche o tante persone. Un partito non nasce mai a tavolino, ma raccoglie i
bisogni, i sentimenti, le emozioni di una comunità vera, viva, che attraverso
il partito si riconosce come tale.
Tutto questo invece
non c’è nel partito democratico. Pensateci. Hanno costituito un comitato di
saggi, per stabilire cosa il partito democratico dovrà essere o non dovrà
essere. Con tutto il rispetto per i saggi, un partito non è un affare da
professori universitari, non nasce perché e come viene stabilito da uno studio
o da una indagine di mercato. Queste cose facciamole fare a Berlusconi ed ai
suoi esperti di marketing. I partiti non sono saponette o dentifrici: nascono
ed hanno senso perché sono fondati su una identità, che c’è o non c’è. A
priori.
La mia impressione è
che non soltanto il partito democratico non abbia un’identità, ma che la
faticosa ricerca di una identità a tutti i costi stia avvenendo a scapito delle
identità dei soggetti che concorreranno alla sua formazione, ovvero noi e la
Margherita.
Per costruire
qualcosa di nuovo, di incerto e se mi permettete di improbabile, siamo
costretti a rinunciare ad un pezzo di noi stessi. Non avrebbe dovuto essere
così, se ci fosse stata una identità comune. Che invece non c’è, questo è il
dramma.
Nel caso della
Margherita è facile rinunciare: le margherite sono fiori effimeri, che durano
pochi giorni, diversamente dalle querce, che hanno profonde radici.
Sulla rinuncia ai
valori fondanti di questa identità si glissa, si dice o non si dice, oppure si
dicono eresie come quella che ho sentito spesso, anche da parte di qualche
compagno illustre, in queste settimane congressuali. Si dice: ma che volete che
interessi ai giovani la caduta del muro di Berlino, se tra dieci anni nessuno
si ricorderà più del muro di Berlino? Applicando lo stesso metro dovremmo dire
che è inutile celebrare il 25 aprile, o far studiare nelle scuole
l’antifascismo, la costituzione. Tanto la storia non serve a niente. E neanche
la memoria, se perfino il compagno Fassino, che sta nel gruppo dirigente del
partito da quando frequentava la scuola elementare, dice di non essere mai
stato comunista. Ha scritto il compagno Peppino Caldarola: “Mai vista una
grande storia buttata via in modo così cinico e sciatto.”
Il problema è che
noi abbiamo profonde radici, una storia, una eredità. La questione nevralgica
che dovrebbe interpellare le nostre coscienze è proprio questa: che cosa
facciamo di queste radici, di questa storia, di questa eredità? Se fossero
soltanto un ingiallito album di ricordi, inutile a progettare e a produrre
futuro, sarei d’accordo con voi: mettiamolo in un cassetto, regaliamolo ad
museo, e non se ne parli più. Ma non credo proprio che sia così: credo anzi che
un riformismo che non si richiami ad un bagaglio di cultura, di storia, di
memoria sia destinato ad essere un riformismo dal respiro corto. Non può
esserci una costruzione del futuro, senza la memoria del passato.
Dobbiamo avere il
coraggio di chiederci – anche a costo di turbare la suscettibilità degli amici
della Margherita – se valori e prospettive come la sinistra, il socialismo, la
tolleranza, la centralità della laicità dello Stato e la sua indipendenza dalla
Chiesa cattolica e da ogni fede religiosa, siano ancora attuali o meno. Come
vedete non si tratta di cose del passato, ma di nevralgiche questioni di
futuro. Sono entrato nel PCI trent’anni fa, provenendo dalle file dei Cristiani
per il Socialismo, il movimento di Giulio Girardi, dopo essere stato il
presidente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica. L’assunto fondamentale
su cui si fondava quel movimento era la necessità di una separazione netta tra
la Chiesa e lo Stato, tra la fede e la politica, come condizione indispensabile
per mettere l’una e l’altro nelle migliori condizioni di svolgere la loro
missione. Ciò rendeva e rende impraticabile la postulazione di un «partito
cristiano» purchessia. Per questo aderimmo al PCI. In questi valori continuo a
credere, e  non vi rinuncio, ritenendo
che possano e debbano essere cercati altri spazi per far sì che essi diventino
maggioritari nel paese.
Mi auguro
sinceramente di sbagliarmi, ma almeno a giudicare dalla perenne conflittualità
che ci oppone all’area cattolica – sui Dico, sull’adesione all’internazionale
socialista, e perfino sui candidati alle elezioni francesi – non credo proprio
che potrà essere il partito democratico il laboratorio e la fucina di una nuova
coscienza democratica del Paese. Lo scenario più verosimile è che sarà qualcosa
da governarsi con il manuale cencelli alla mano, in bilico tra tante
correnti e mille liti quotidiane. Uno scenario che non mi appassiona.
Non mi piace neanche
il percorso costituente del partito democratico, che mi dà l’impressione di un
partito che nasce perché lo ha detto la televisione e perché piace a qualche
corsivista di Repubblica e del Corriere della Sera. Quando il compagno
Occhetto fece la svolta della Bolognina, dal giorno dopo in seno al partito,
cominciò una riflessione sofferta, lacerante, però partecipata e consapevole.
Questo congresso si svolge invece a decisioni già largamente assunte. Vorrei
potervi invitare a tornare indietro, a fermarvi finché c’è tempo, ma mi accorgo
che non c’è più tempo. Non c’è mai stato il tempo e la possibilità di fare una
battaglia congressuale vera. Ho voluto lo stesso offrire questo contributo
nella speranza di scuotere qualche coscienza, e per il bene che porto a voi e a
Troia.
Non voterò per
nessuna delle mozioni, perché non mi appassiona l’idea di stare nella sinistra
o nell’opposizione interna di un partito al quale non credo, e che non
condivido, e neanche quella di fughe nella sinistra radicale. Per dirla col
compagno Caldarola, mi arrendo.

Resterò Democratico
di Sinistra fin quando esisteranno i Democratici di Sinistra. Poi, resterò
semplicemente di sinistra.
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Author: Geppe Inserra

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