Viscardo di Manfredonia, la quarta puntata

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Eccoci alla quarta puntata del romanzo di Francesco Prudenzano, Viscardo di Manfredonia. Quanti avessero perso una o più delle puntate precedenti, possono recuperarle cliccando qui. Nella pagina dedicata da Lettere Meridiane al romanzo, è possibile trovare, oltre al riassunto delle puntate precedenti, con i relativi collegamenti per scaricarli (per effettuare il download, cliccare sui numeri dei capitoli) una scheda critica, l’elenco dei personaggi.  Buona lettura.

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CAPITOLO IV.

Ma perché il nome del duca di S. Giovanni, e l’annunzio di sua venuta nel castello di Montesantangelo conturbarono Eleonora ? Ecco quel che vedremo in questo capitolo.
S. Giovanni Rotondo è una terra di Capitanata giacente alle falde del Gargano. La collina, ove sorge il villaggio è sempre verde ed amena, ed è poche miglia lontana da Manfredonia. Di origine antichissima era un dì cinto di forti mura, ed avea porte e torri in giro che lo guardavan dalle scorrerie e tentativi de’ baroni seminati per le vicine terre. In questo grosso villaggio s’alzava un tempio di circolar figura dedicato a Giove. Sorto il cristianesimo e distrutta la credenza delle divinità pagane, venne questo tempio modificato ed adatto al culto cristiano, dedicandolo a S. Giovan Battista. Sicché dal nome del Santo e dalla figura del tempio fu detto il paese S. Giovan Rotondo.
Poco discosto dall’abitato increspa le sue onde un lago delizioso di chiare e fredde acque, sul quale (raro fenomeno di natura) c’è un eco maraviglioso che produce per intero molte parole. C’erano a que’ dì selve abbondanti di cacciagioni, e poco discosto la riserva reale per le cacce, detta la Peschiera del Re, di assai giocondo divertimento; ove i Viceré Spagnoli soleano alcuna volta andare a diporto a tirar quattro colpi di moschetto su pennuti e quatrupedi che quivi si nutrivano a stuoli ed a torme.

Una cronaca antica che narra i fatti del Gargano e delle terre adiacenti, fa la storia o cronologia di questo Ducato; della quale crediamo opportuno darne brevi cenni al nostro lettore.
Giorgio Castriota Scandelberg, famoso negli annali civili del regno, per lo sbaraglio che facea de’corsari e delle armate musulmane su’ mari d’Italia, a segno che veniva chiamato il terrore dei turchi; ebbe dal governo di Napoli, quale argomento di ammirazione al suo coraggio e valore di guerra, nel 1464 il Ducato di S. Giovanni.
Morto il Castriota fu nel 1497 conceduto al gran Capitano Spagnolo, Consalvo de Cordova, ai servigi del Viceré. Ritornato il feudo dopo la morte del gran capitano nella dominazion Viceregnale, lo comperò nel 1507 Troiano Mormile. E nel 1601, passò in possesso ad una tal Beatrice Gueguarra con patto de retro vendendo [patto di retrovendita, ovvero promessa di rivendere il bene allo stesso venditore]. Nel 1607 fu venduto sub asta a Matteo di Ruggiero, il quale nominò suo erede Pietro Cavaniglia. Dopo pochi anni ne acquistò il possedimento Michele Cavaniglia, di cui ne fé poscia cessione ad una signora della famiglia medesima, Margherita Cavaniglia. Costei aveva un’unica figliuola di forme leggiadre e di soavi costumi, chiamata Maria, che n’era erede del Ducato.
Sorgeva in un lato del villaggio un antico castello che innargentato dal lume di luna sembrava da lontano un selvaggio e smisurato spettro. Ora è deserto e mezzo diruto, e vi annida ne’ crepacci di quelle antiche muraglie il gufo che lo attrista in sull’imbrunire col suo ululato. Era questa la magione de signori di quella terra, e Maria colla madre abitavano quivi, governandosi con quel fasto e portamento che conveniasi a donna che mena onesta vedovanza. La fama del mite governo e della bellezza di Maria suonava pei paesi d’intorno , e molti baronetti e marchesini avean messo (come fa il cane da caccia che fiuta e fiuta, finché trova la preda ) gli occhi sulla giovanetta , stimandola un buon boccone , chi addirittura per loro , e chi pel primogenito.
Una delle famiglie patrizie di Monteforte che dominava quella terra era la casa dei conti Rocciglione, temuta per l’austero governare, ed illustre in un tempo pel fasto regio con cui si manteneva nell’intero Reame. Ugo Rocciglione, loro parente in ramo cadetto, aspirava al dominio di quel castello in caso di vacanza di regitori. Giovane in sui 25 anni mostrava tratti cavallereschi; ed avido di dominio poneva ogni opera a farsi amica l’aura popolare, trattando alla lontana coi suoi magnati parenti, ed entrando spesso in mezzo a’popolani di certa importanza sulla comune massa. Venutagli frattanto a conoscenza la cessione del Ducato di S. Giovanni a Margherita Cavaniglia vedova e con una figliuola quanto bella, tanto amorevole ed affettuosa, fece all’istante disegno sulla giovanetta Maria. E lontano dal voler destare sospetti d’aver lavorato nella sua mente, anziché l’affetto, l’ambizione e l’interesse, ideò fare uno splendido viaggio, fino a toccar le terre salentine, e quindi al ritorno, quasi fosse per caso, capitò nel castello di S. Giovanni. Splendide, quali si conveniano a simil personaggio, furono le accoglienze che fecegli la Duchessa Margherita de’ Cavaniglia. La semplicità de’ costumi di lei e l’indole sua buona di veder nulla reo, mostrarono ad Ugo men difficile una repulsa alle sue richieste. Ond’egli ponendo in opera il suo ingegno scaltro s’infinse [si finse] devoto, umano, generoso, proclive alla pietà; e di ogni nobile senso mostrò fecondo il suo cuore. Ciò accrebbe ver di lui l’ammirazione della Duchessa, di che accortosi il Rocciglione credè maturo il tempo di manifestarsi; e le svelò il suo amore per la fanciulla, facendole in pari tempo richiesta di nozze. Ne ottenne il consenso , e queste furon celebrate nel castello medesimo, del dominio del quale gli vennero fin dal primo giorno affidate le redini. Investito per tal causa della dignità ducale si mostrò intento e generoso dispensator di giustizia. Ma un animo inviziato [vizioso] e disceso da progenie d’oppressori, mal può a lungo celarsi e tradir la sua indole rea, che natura madrigna gli ha concessa. Onde fattosi a un tratto cader la larva che gli copriva il viso, ne sorse ben altruomo; mostrandosi in tutta la sua nudità il vizio che per tanto tempo era rimasto da ipocrito manto coverto ad occhio mortale.
Margherita frattanto, vinta da cruda infermità, moriva rimpianta dalle sue genti, e, se fosse possibile solo l’immaginarlo, diremmo disperata; essendosi troppo tardi accorta dell’incauto suo passo di aver messo volontaria e gioiosa, povera madre! quella candida colomba della sua figliuola fra gli artigli di avido nibio.
La morte della suocera rese vie più libero Ugo, e lo dispogliò da qualche lontana renitenza che gli avrebbe potuto inceppare alcuna delle sue operazioni. E come che scaltro ed astuto animo annidasse, mal fidatasi di avere a difesa del suo governo solo i Sangiovannesi; e chiamò ai suoi servigi gran comitiva di persone di Monteforte. Laonde tutti i Bravi della sua corte e molta parte degli armigeri eran suoi terrazzani [conterranei], fieri, per indole del selvaggio e montuoso luogo natio. Parve al duca un appoggio maggiore vedersi circondato da’suoi, laonde si diede senza ritegno a qualsiasi mala e licenziosa opera. Le mogli altrui rapite , involate le figliuole, pugnalati i mariti, o i padri e i fratelli se ne movean querela; avea messo negli abitanti un isolamento e uno squallore mortale. Il giorno era Ugo invisibile e là notte invece penetrava nei sacri lari del cittadino scavalcando spesso mura e finestre, piombandovi improvviso a recarvi il disonore ed alcuna volta la morte.
E la povera Maria? quel fiore di casti pensieri, quel sorriso di amore, quell’Angiolo celeste mal soffriva vedersi tradita e vilipesa dallo sposo, che pure sciaguratamente (primo amore) amava cotanto! Ne sanguinava il suo cuore e per l’onta e’l tradimento del marito, e pel crudele e scempio governo che facea di quelle misere genti; il lamento delle quali, il più delle volte veniva strozzato dalla mano notturna del sicario. Per la qual cosa la poveretta ne mosse querela all’arcivescovo di Manfredonia, già suo confessore; e quel buon vecchio, temuto e venerato per santo, non rifiutò il pietoso ufficio. Sicchè venuto nel castello di S.Giovanni, solo ma colla scorta della fede ch’è al di sopra de’ pugnali e del cannone, ne rimbrottò amaramente il duca; e scuotendolo pel vestito, rammentogli i doveri, che il sacro testo registra, de’governatori della terra. Tennesi di ciò Ugo fieramente adontato; e l’esser corsa rapida tal nuova nel paese, lo spinse a consumare un delitto, di cui già ne vedeva indispensabile il compimento, per essere a suo malsenno libero e senza quelle pastoie che inceppavano le sue irrefrenabili libidini. Ma come fare ad illudere il popolo ed ingannare il sacerdote? Vestì di nuovo il manto dell’ipocrita e giurò per la divina Fede innanzi al buon Pastore di Manfredonia, mutamento intero di vita, attribuendo più alla giovanile età il fin allora operato che a rea naturale indole.
Tra i Bravi del suo castello ce n’era uno sopranominato Caino, così detto dagli abitanti di Monteforte per aver questi in tenera età strozzato un fratellino , col cacciargli a forza un pomo nella gola. Intorno ai 50 anni, secco ed alto della persona, con occhi grifagni ed irrequieti, gagliardo di membra ed agile e lesto nel trar del pugnale, Caino era il baluardo e insieme il mal consigliere del duca. Chiamollo un dì Ugo segretamente, conducendolo nelle stanze più recondite del castello, e quivi confidogli il terribile ufficio; facendogli giurar per Dio, pena la sua vita, se mai rompesse il silenzio. Giurava il ribaldo, e composto il volto a ghigno infernale nascondea nel suo petto un’ampolla che gli dava il suo padrone, ed usciva incaminandosi di male gambe.
Maria Cavaniglia infermò. Interno morbo sconosciuto e ribelle alla cura dell’arte salutare la consumava lentamente; sicché dopo tre mesi di crudele agonia, aprivasi la tomba di famiglia a ricever la salma della giovane duchessa, che la mano di Caino avea spenta, somministrandole il lento veleno ricevuto da Ugo Rocciglione!
Ma eterno non è il silenzio de’delitti, che anche sepolto qual cadavere, la terra stessa lo rigetta dalle sue viscere e Iddio lo pone allo scoperto. Malgrado dunque le strette precauzioni, il popolo penetrò nel mistero, e mandò un ruggito di fremito. La nuova si diffuse per tutte le Puglie destando un orrore generale.
Parve al duca, uso a strozzare i rimorsi, di non dipender che dalla sua volontà, coll’essersi disfatto di chi guardava a’suoi passi. Da quel di il suo castello divenne un orgia: lussurie, cene, tresche, bagordi eran la nera fiaccola che lo rischiaravano.
Correva il 1618 e la siccità avvenuta nella primavera avea prodotto gran penuria ne’ricolti [raccolti], talché la malannata inferociva sulla misera gente, e la fame non soddisfatta produceva malattie e mortalità numerose. E schiudeansi prigioni ed alzavansi patiboli a punir la colpa non da natura inviziata prodotta, ma da fatal bisogno che mette l’uomo alle strette di porre ardito e spinto dal dritto ch’egli sente alla vita, le mani sull’altrui sostanza; adoperando anche il pugnale a distruggere l’ostacolo che si frappone alla sua esistenza. E quando per questo flagello si attendeva che la mano del duca ne mitigasse l’acerbità, allora appunto pesava maggiormente; e dalla sventura traeva argomento a rendite più pingui. E lo prova il fatto che diremo.
S. Giovanni era una terra privilegiata dal governo viceregnale, dove in ogni anno, agli 11 di giugno, nel giorno di S. Onofrio, si radunavano gli abitatori delle vicine terre; i quali dopo aver considerato il ricolto de’cereali in ordine alla quantità, di comune parere ed a pubblica voce ne tassavano il prezzo: e questa tassa non poteva esser violata da chicchessia.Non così in quelFanno; che dove l’umanità avrebbe dovuto scuotersi al cospetto della miseria e della morte, vie più allora l’animo del potente era inesorabile, e si appalesava in tutta la sua ferocia. Il duca strettosi a’monopolisti, furono aumentate smodatamente le tasse, dando enormità di prezzo a’cereali. Il paese intero ne levò lamento, ma estenuato com’era ed oppresso, gli mancaron le forze a sollevarsi e sostener quei dritti concessigli da Sua Maestà cattolica, che ora venivan manomessi e violati improbamente; sprecandosi tal prodotto a fomento della colpa, che costava la vita e i sudori d’un popolo affidato alla sua tutela.
E comeche nelle terre e ne’ castelli di Puglia eran famosi i rigiri e le intemperanze del duca; Eleonora Crimelda fu riscossa e si conturbò a tal nome, e all’ annunzio di sua venuta nel castello di Montesantangelo.
Licenziatosi intanto Ugo da Della Scala il dì appresso alla festa dell’Arcangelo S. Michele, cominciò nella sua mente ad affacciarsi un pensiero solleticante, a cui sul bel principio cercava non dare ascolto, e quindi gli piaceva alcuna volta vagheggiarlo, e poi tenerlo come un oggetto vano; ma pur finiva col parergli bello, e palparlo colla fantasia, che gli s’era in modo formidabile accesa.
Una sera passeggiando solo sui bastioni del suo castello, alzava il capo a guardar sulle cime del Gargano; ed appoggiatosi colla spalla alla muraglia , e raccoltosi le braccia sul petto, ruppe in queste parole : – La è pur così, per tutti i Santi! Io avvezzo, ad esser impassibile a’sospiri e al sangue, ed ora questo viso benedetto m’ ha ad annichilire ed a rendere schiavo d’amore. Per bacco! ah ah ah! la è davvero singolare… Ma ora che son io e, la mia coscienza non possa mentire a me stesso: io amo Gabriella: il vecchio Raimondo sorriderà di contento alle nostre nozze: egli ed io siam potenti e temuti: il nostro parentado darà ombra maggiore di legalità alla nostra lega , e per Dio ! — e strozzò le parole in un fosco ghigno, che racchiudeano mistero e vendetta — Gabriella sarà fra non guari [tra non molto] la signora del mio castello; e questo vil branco di pecorame — ed accennava colla mano e con un girar torvo di occhi il sottoposto popolo, il quale tornato dalla fatica barattava pacificamente parole, raccolto a gruppi nella piazza; recitando in quel punto a capo scoverto la preghiera dell’Ave Maria, di cui già ne dava i tocchi la campana maggiore della chiesa. — E questo vil branco di pecorame si inchinerà devoto a’ suoi piedi… Sì , Gabriella, il mio cuore palpita ferocemente per te!… Nascesti avventurata… [fortunata] sarai la sposa del duca di S. Giovanni, e la donna prediletta del suo castello. — E in profferir tali parole, la sua fronte per ordinario annuvolata , parea rischiararsi ; e ‘l suo volto componeasi a un dubbio sorriso; quasi vagheggiasse a un tempo e lo scoppio di maturata, vendetta, e i difetti coniugali che si attendeva dal matrimonio con la vergine Della Scala.
E rientrò nelle stanze col fermo proposito di mandar solenne imbasciata al barone Raimondo per chieder la mano della sua figliuola.

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Author: Geppe Inserra

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