L’articolo che Lettere Meridiane propone oggi ad amici e lettori ha un valore storico e documentale straordinario. Scritto da Curio Mortari, giornalista, scrittore specializzato nel racconto di viaggi, inviato speciale de La Stampa, venne pubblicato sulle colonne del quotidiano torinese il 9 marzo del 1934 con il titolo Foggia com’era e com’è, e un occhiello quanto mai metaforico, Tropico d’Italia.
Il reportage di Mortari viene scritto in un momento cruciale della storia foggiana del Novecento. Dieci anni prima era stata inaugurata la Fontana del Sele, simbolo dell’acquedotto pugliese, e dopo l’arrivo dell’acqua per spegnere la sete della popolazione, si lavorava alacremente per spegnere quella dei campi e accendere nuove prospettive all’agricoltura. Era in pieno svolgimento la bonifica del Tavoliere, e Foggia era al centro di un grandioso programma di opere pubbliche, noto come “Grande Foggia”, che era stato definito con il piano regolatore generale.
Il grande valore dell’articolo sta nel fatto che è uno dei pochi reportage che offrono una testimonianza in presa diretta dell’atmosfera che si respirava a Foggia in quegli anni di intensa crescita della città, che sarebbero stati traumaticamente interrotti, di lì a poco.
Quello stesso regime fascista che stava cercando di portare in alto Foggia ne causerà la rovina e la distruzione, trascinando il Paese in una guerra atroce, che si abbatté con particolare ferocia e violenza proprio su Foggia, che soltanto quattro anni dopo sarà tra le città italiane più colpite dai bombardamenti aerei alleati.
L’articolo di Mortari resta una preziosa testimonianza di ciò che Foggia stava diventando. O di ciò che Foggia sarebbe potuta diventare, se la guerra non ne avesse spento i sogni e tarpato le ali.
Lo stesso fatto che un quotidiano importante come La Stampa abbia inviato una delle sue migliori firme a raccontare il capoluogo dauno, testimonia l’interesse che il laboratorio Foggia suscitava in tutto il Paese, solleticando l’immaginario collettivo: nella didascalia alla fotografia di Piazza Cavour che compare nell’articolo, lo scrittore paragona Foggia nientemeno che a Barcellona: “Questa piazza può dare, a prima vista, l’impressione di Plaza de Cataluna, a Barcellona… È invece piazza Cavour di Foggia, col Palazzo dell’Acquedotto sullo sfondo.”
Un’ultima considerazione sulla metafora del Tropico d’Italia che Mortari inventa sorpreso dalla particolare diffusione delle palme a Foggia.
Oggi ne sopravvivono pochi esemplari, che pare saranno presto abbattuti, in quanto le piante sono malate.
Di Foggia, tropico d’Italia, non resterà neanche il ricordo.
(Geppe Inserra)
TROPICO D’ ITALIA
Foggia come era e come è
(Dal nostro Invialo speciale)- FOGGIA, marzo. —
Qui la palma alligna fortemente bene! mi aveva detto la guardia, con robusta sicurezza e pittoresco eloquio, pur continuando a manovrare la sua clava, tra un rumoroso carosello d’automobili.
Non ho stentato a crederlo. Intorno a una grande piazza serena — dove una fontana monumentale simile a un gigantesco vassoio sembrava grondare diamanti — gli alberi simbolici dei Tropici levavano i fusti bruni, embricati e scabri, lasciando ricadere le loro chiome verdi o agitando i loro ventagli al vento leggero che veniva dalle azzurre ondulazioni del Subapennino.
Attraverso un monumentale loggiato, che aveva qualcosa d’egizio, altre palme grandi e piccole mescolavano i loro tronchi e i loro flabelli (ventagli cerimoniali, n.d.r.), in una prospettiva profonda. Città di palmizi e di fontane, dal piano chiaro ed arioso, dalle lunghe vie rettilinee, in cui estuava (ribolliva, fluttuava, n.d.r.) una folla variopinta! Chi avrebbe detto che questa era Foggia, la vecchia Foggia, gregge di case basse e polverose, qua e là adornate di gessi e di fronzoli borbonici, popolata in maggioranza dai contadini malarici, sfatti sitibondi, affluiti dal Tavoliere; la afosa città quale ce la dipingeva una vecchia e falsa tradizione?
Ogni città, un mondo
Tutta una politica nuova, traendo motivo da un violento impulso di vita che sale da una inesausta fertilità di creature e di terre, ha dato a Foggia, in un decennio, una fisionomia inedita e in parte anche un diverso contenuto.
Ogni città italiana — dicevo già parecchi anni fa su queste stesse pagine — è un mondo da studiare in estensione, ma soprattutto in profondità, e il titolo «Scoperta d’Italia» non era, in questo senso, una vana frase. La vertigine rotativa dei giornali e dei « films » possono prospettarci ogni giorno campionari spettacolosi di tutti i paesi del mondo. Noi vediamo quotidianamente le città-fungaie dell’America del Nord e le moderne trasformazioni dell’Asia; i paradossi meccanici del Giappone e la nuova vita delle jungle malesi; ma l’Italia col suo complesso ordine di civiltà, con la genialità verticale della sua storia che è fusione di mondi, rimane un fenomeno unico per il turista e per lo studioso, per l’artista e pel pioniere. Ogni città italiana (e, si può dire, ogni villaggio italiano) è un cosmo a sè. Nuovo, improvviso, meraviglioso come la fioritura dei mandorli sotto le nuvole di primavera, il genio delle città italiane ha tuttavia propaggini che s’affondano entro strati millenari, in cui filoni, sedimenti, documenti, germogli, frammenti illustri di templi e di opere, di arti e di leggi s’accumulano come in un abisso misterioso. L’aratro meccanico d’oggi non azionato dalla pacata forza dei bovi ma dal motore, può rimettere in luce, col suo vomere preciso, bronzi, marmi, necropoli. E il grano germoglia e ondeggia sui millenni inesplorati.
Acqua, bonifica, ferrovie
Tutto questo sottosuolo fecondo è anche l’humus di Foggia, centro nuovo dell’antica Daunia, granaio dei Romani. Senonché per secoli, questo prezioso impasto di civiltà era rimasto inerte, sterile, come una serie di morti strati sovrapposti.
Mancava l’acqua, elemento primordiale della vita umana, animale e vegetale. Uomini e bestie si abbeveravano a pozzi di acqua salmastra e spesso inquinata. Intorno alla città, la terra — la quale pur racchiudeva in sè i tesori dei grani duri, che danno sapore e nutritiva consistenza al pane — era in parte arsa come una steppa, in parte ridotta, dai torrenti non indigati, ad una distesa acquitrinosa, in cui covava lo spettro della malaria. Questa regione dagli orizzonti sterminati e squallidi, era il Tavoliere. È bastato che l’acqua cristallina e irruente del Sele, convogliata attraverso una gigantesca opera d’ingegneria idraulica, zampillasse dalle fontane di Foggia, e della Puglia tutta, perché questo sottosuolo, carico di virtù generative, sbocciasse di colpo. Era una nuova fioritura, irrompente e tropicale, che buttava su, dopo un sonno di secoli. Dalle terre brune, rosse, rosee della Capitanata, quasi sanguigne e venate, come carni, avvicendantisi in trecce e in filoni prolissi, irrompeva tutta una vita inedita.
Nello stesso tempo, un’opera di bonifica, indubbiamente, la più grande d’Italia, veniva impostando un piano colossale di redenzione terriera. Era la rinascita del Tavoliere, era la promessa di nuovi tesori granari per l’Italia, ed era anche il risanamento progressivo, la bonifica fisica e morale delle popolazioni, il loro avviamento verso nuove opere e nuovi destini.
Il Palazzo dell’Acquedotto Pugliese, nel quale si trova pure il Consorzio generale di bonifica del Gargano, non è quindi, con la sua mole bianca di sette piani sormontata di cupole basilicali, soltanto una bella e moderna costruzione, ma un simbolo. Esso domina tutta la città nuova e i grandi problemi che sono connessi al suo sviluppo e sono indicatori del suo sicuro avvenire. Foggia, che non è più riconoscibile da quella di dieci anni fa, sarà fra dieci anni del pari irriconoscibile. Già un pacato cronista foggiano vissuto tra il Seicento e il Settecento, in un vecchio e consunto manoscritto, di cui i topi rosicchiarono il dorso, e che ancora si conserva nella Biblioteca comunale della città, constatava e prevedeva. Scrivendo della importanza granaria di Foggia, egli diceva « che somministrava il grano a molte nazioni ». E seguitava: « Una volta venivano li mercanti veneziani in Foggia a dare le arre di grosse somme per la compra e trasporto del grano, o per uso proprio, o per imbarcarlo e venderlo ad altre nazioni… ».
« Particolarmente in Foggia vi sono mercanti Veneziani e Bergamaschi dalli quali oggidì si fa industria, di modo tale che vi sono cose di considerabile fondo così uscite dalle botteghe della piazza, come da case mercantili particolari, le quali cavano un ordinario lucro dalle lane… E non ha dubbio che si vedono in Foggia molte botteghe di mercanti che vendono panni, seta e drappi d’oro; quattro o cinque mercanti di cera e droghe; cinque o sei speziali di medicine; altrettanti orefici; calzolai infiniti ; mercanti di fettuccie e di tele di Persia, et altri d’infinite mercanzie, tutti benestanti e ricchi ».
La città che si rinnova
A due secoli di distanza aggiungerò, alle pittoresche descrizioni del Cronista foggiano (quale impressione della prima giornata passata in città, con uno sfarzoso sole a picco, e grande festa di folla e di ragazzi nelle vie) che ho visto nella città rinascente molte altre botteghe, molti altri commerci, molti altri empori. Non incontravo (e forse, per la prima volta, Dio ne sia ringraziato) trams, ma constatavo una folla veramente eccezionale d’automobili. I caffè e i bars erano pieni; i chioschi dei giornali circondati da crocchi di gente intenta. Le piccole mescite degli acquaioli ostentavano i loro limoni turgidi come seni, i loro cocchi pelosi, le loro caraffe piene di liquidi salubri. Ma sopratutto mi colpivano l’edilizia nascente, le vie rivoluzionate dai picconi, le palizzate bianche intorno a muri freschi, l’inusitato fervore delle opere; tutti segni di vita nuova, pionieristica, conquistatrice.
A questi aspetti si mescolavano (ma senza urtare, con quella amalgama densa ed elastica che soltanto il sole del Meridione sa fondere e dorare) i motivi pittoreschi dell’antica feracità e delle mitologie occulte, che lievitano nel misterioso suolo d’Italia: — i grandi pani dorati esposti nelle vetrine dei fornai, le mozzarelle e i « provoloni » appesi sulle soglie delle botteghe, la virgiliana copia pressi lactis (cagliata, n.d.r.); i frutti violentemente cromati; i mandarini adorni ancora delle loro foglie botticelliane, e anche le corna bovine inchiodate sulle porte, in segno di scaramanzia; insomma quell’inesprimibile senso di carnalità schietta e feconda, di colore e di esuberanza che è proprio del Sud.
Certamente non tutto appariva ancora perfetto, e la povertà occhieggiava ancora, qua e là, su limitari oscuri. Ma il popolo, anche quando povero, è speranza; è fertilità che matura; è vita che diventa.
Ora è a questa vita nuova, ricca di succhi e di lieviti — che io vorrei appunto chiamare Tropico d’Italia — che la vigile cura del Duce, in quasi undici anni di Regime, ha dato, dà e darà l’impulso che sopratutto meritano coloro che conoscono le dure discipline del lavoro e le sane battaglie della fatica, offerta quotidianamente e silenziosamente, per un’Italia più grande.
CURIO MORTARI
9 marzo 1934
Potete trovare qui la pagina de La Stampa.
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Grazie come sempre per questa primizia purtroppo densa di banalizzazioni storiche se non errori propaganda fascista e qualche verità. Chissà sé il cronista sapeva che eta anche in programmazione il cosiddetto Centro Chimico poco oltre la Cartiera ove si sarebbe prodotta quella iprite che ancora oggi flagella i pescatori della marina.