Nella primavera del 1929 Riccardo Bacchelli visitò Lucera, verosimilmente nell’ambito del tour dauno organizzatogli dal suo giornale, La Stampa di Torino, soprattutto allo scopo di far conoscere ai suoi lettori il Gargano, allora molto poco noto, e Padre Pio da Pietrelcina, la cui fama cominciava a spargersi in tutta Italia.
Del suo viaggio nella Montagna del Sole, l’autore de Il mulino del Po lasciò incantevoli reportage, pubblicati dal quotidiano torinese nel mese di marzo di quell’anno.
L’articolo su Lucera uscì più tardi, il 18 giugno, e possiede un taglio molto diverso da quelli garganici. Se in questi prevale l’approccio dell’inviato speciale, il pezzo sulla cittadina aveva è ricco di divagazioni in cui l’autore, partendo dal passato riflette sul presente, ed esprime la sua opinione su diversi aspetti del costume dell’epoca: dal “buonismo”, alle guerre di religione, al modo di interpretare la storia.
Un pezzo da manuale di giornalismo, che offre una lettura inedita, profonda e divertente di Lucera, ancora pervasa da insofferenze acute verso il mondo islamico (ed anche in questo senso il pezzo è attualissimo) e verso lo stesso Federico II, che della sua storia è stata magna pars.
Se volete rileggere i pezzi garganici di Bacchelli, trovate i relativi collegamenti alla fine dell’articolo.
Le note che si riferiscono ai personaggi citati dall’autore, sono mie.
Le immagini che illustrano il post sono tratte da immagini d’epoca, originariamente in bianco e nero, colorizzate attraverso un algoritmo di intelligenza artificiale che applica la tecnica di Satoshi Iizuka, Edgar Simo-Serra e Hiroshi Ishikawa (Let there be Color!: Joint End-to-end Learning of Global and Local Image Priors for Automatic Image Colorization with Simultaneous Classification). Se siete interessati a ricevere le foto colorizzate in alta risoluzione, fatemelo sapere commentando il posto. Buona lettura.
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Si entra in Lucera da una porta militare, per una strada rustica e in pendio, e naturalmente si ha la testa piena dei saraceni e del secondo Federico. Dei saraceni ch’egli trasportò a Lucera dalla Sicilia rimangono soltanto il ricordo e certi orridi ceffi moreschi, che furon messi a far da capitelli e da ornati sugli stipiti e negli angoli, per far paura ai ragazzi, diresti, e per commemorare le giornate in cui di teste vere s’addobbarono i muri della città. E anche di lui, dell’imperatore scomunicato, il martello della Chiesa Romana, “luxuriosus epicureus”, rimane poco. Il castello dominatore di una delle più belle vedute di Puglia, fra gli Appennini e il Gargano sulla gran distesa del Tavoliere, è in buona parte rifatto dagli Angioini, è una solatia rovina, dove intorno brucano le pecore sotto la guardia del vigile sonno dei cani da pastore, e dove solo della Torre della Regina resta tanto da risuscitare nella fantasia le eleganze architettoniche che l’abbellirono. E il vento primaverile, che stormisce nelle feritoie e nelle breccie del fiero recinto, par che dia al sole schietto la melanconia dell’ala del tempo, lieve cosa senza rimedio.
Qui il lussurioso epicureo tenne il serraglio delle belle fiere e dei leopardi da caccia e delle bellissime femmine e degli abbominevoli eunuchi. Qui campava da rinnegato alla moresca, ridendosi dei monitorii papali e dei missionari che non riuscivano a convertire la “peste musulmana” da lui introdotta in terraferma.
Cotesto tedesco fantastico seppe molte cose, ma ignorò quel che si offende, e che non si offende impunemente, quando si oltraggia la religione del popolo. A noi lo insegna il ribrezzo, che dura ancora dopo tanti secoli, in Lucera, e che si esprime nella leggenda. La tavola dell’altar maggiore in Duomo è fatta d’una grande e bellissima lastra di pietra, la quale era la sua mensa in Castel Fiorentino, residenza dove morì. È stata posta lì come segno d’espiazione ? Certo è che il popolo lucerino favoleggia che del Duomo Federico si fosse fatto un lupanare di donne, e che proprio sul luogo dell’altar maggiore avesse messa la latrina. Favola; fra l’altro il Duomo è opera angioina di Carlo II lo Zoppo; e v’era prima la moschea dei saraceni. Ma la fantasia è forte ed acre, e tenace il risentimento popolare lucerino. C’è accanto alla porta di sinistra, una pietra tombale incastrata nel muro. Colui che vi è effigiato, un gentiluomo, a quel che pare dal vestito, del Seicento, non ha, che si sappia, altra colpa che quella d’avere una faccia brutta e maldisponente, da segnato da Dio: il popolo e’è messo in testa, in dispregio a Dante e alla storia, che sia il traditore Pier delle Vigne ; e i vecchi lucerini non ostante la sorveglianza e i divieti del sagrestano ritengono di farsi un merito collo sputargli in viso. Sarebbe, se mai, il povero Pier delle Vigne, traditore dell’aborrito Federico, ma il popolo nelle sue giustizie non guarda per il sottile, né alla decenza.
Confesso un sospetto; ed è che il mondo nostro a forza di decenza stia svilendo il vigore maschio dei sentimenti. A quella detestazione dei traditori e del tradimento, mi par che sia da perdonare l’indecenza dell’atto e l’errore storico dei lucerini. Insomma, mi paiono effetto di sani principi. Ma noi, siamo puliti, puliti, puliti. Quando non ci resterà più altro, la pace perpetua sarà un fatto, e le ossa di Wilson riposeranno. Per ora c’è l’ostacolo dei petroli, dicono. Un tempo le genti si scannavano per la fede: valeva meglio la pena.
Ma imparo da un’acuta e dotta monografia dello storico Egidi [1], che anche la distruzione dei saraceni di Lucera, dei quali Carlo lo Zoppo fece metterne ventimila a fil di spada dal suo ministro Pipino da Barletta fra il 15 e il 24 agosto del 1300, fu un’operazione finanziaria, un esproprio delle terre demaniali concesse agli infelici musulmani da Federico e anche da Carlo I, e da lui stesso, lo Zoppo, travagliato dalla guerra perpetua e dal bisogno orrendo di denaro e di frumento.
Non ho l’autorità di discutere né di dubitare. Ma anche sotto l’Inquisizione di Spagna c’è un fattore economico e politico: Torquemada per altro aveva un motivo religioso. Sotto ogni fatto della storia c’è quel fattore, ma la storia non sarebbe la storia, anzi l’uomo non sarebbe l’uomo, e non opererebbe storicamente, se non avesse motivi d’altro genere: primo e più efficace e capitale, quello delle tante cose e passioni che si chiamano la religione.
Quel povero Carlo lo Zoppo, che combatté non so quante battaglie e credo che le perse tutte; che cominciò il regno in prigionia; che, quando Ruggiero di Lauria l’ebbe preso nella battaglia del Golfo di Napoli, sentì i capitani e le ciurme siciliane discuter lungo la traversata se era da tagliargli il collo o da metterlo a prezzo di riscatto; disprezzato già da suo padre (uno dei migliori cavalieri che mai fossero, secondo il suo gran rivale Giacomo d’Aragona), il quale, quando seppe la rotta navale e prigioniero il figlio e morti molti dei suoi migliori : « Così fosse morto lui — disse — quel prete imbelle e sconsigliato ! » — quel povero Carlo lo Zoppo è effigiato in una statua tombale che ho vista nel Duomo di Lucera, e che mi ha mosso la fantasia.
Prete, lo chiamava suo padre, che era religiosissimo, perché nato più per le devozioni che per le armi, si narra che avesse la tenda piena di libri e di insegne sacre e di reliquie ; prete perché era debole di corpo, eccitabile e facile a credere alla fortuna. In tutta la sua vita travagliosa seguita e nel suo regno si scorge nella sventura, che par più adatta a un uomo di vita ascetica e devota che non a re e guerriero.
Povero Carlo! Se devo confessare la verità, ciò che più mi persuade che nell’operazione sui saraceni di Lucera ci fu veramente qualcosa di un eccidio religioso, di una notte di San Bartolomeo (24 agosto, vedi i casi e gli incontri delle date !) è il suo ritratto.
La cattedrale di Lucera, città dai bei portali, è una grande opera che sorge da un terreno disuguale; e l’industria degli architetti, invece di spianarlo, che sarebbero stati buoni tutti, s’è ingegnata coi contrafforti arditi e varii a sostenerla sulle disparità del terreno, in modo da farne una fabbrica piena di naturale imprevisto e di grazia ardita.
(Dirò che mi accorgo nei miei articoli di parlar troppo d’architettura, ma come si fa, quando l’Italia è folta di tanti miracoli di pietra?).
Lo Zoppo giace a mani in croce, mani piccole in posa stanca e d’abbandono; ha indosso una corazza tutta lavorata, e quasi si direbbe che il corpo gracile v’abbia da poco smesso di respirarvi dentro, e che gli fosse di fatica; una spada troppo grande per lui gli pende rigida e pesante dal fianco. Ha le mascelle lunghe e il mento rotondo; le guancie, se posso dir così, affusolate; la fronte testarda e nella quale non si suppongono né molte né grandi né fervide idee. Per altro è una fronte nobile, e tutto l’uomo ha quel che esprime, sia anche in significato di decadenza, la parola: signorile. Il segno della tenacia sfortunata, e che sa d’esserlo, è fra occhio e occhio; una specie di corrugazione testarda e smarrita; sulla bocca infantile e imbronciata c’è uno scontento e un cruccio che non riesce ad esser crudele, ma che è tanto amaro da far credere che crudele possa essere stato. Gli occhi, che dovettero esser grandi e prominenti, sembrano arresi or ora a una grande stanchezza, più che alla morte.
Se questi fu lo Zoppo, a me par di leggergli in volto proprio quel tanto d’eccitabile e turbato che produce in certe anime la bigotteria inquieta, il fanatismo; maniera di devozione diversa e certo tanto minore e inferiore a quella che nei maggiori spiriti di santi si chiama carità, e carità severa magari.
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E ci sarà poi stato anche il movente economico, a intrudersi in quella ch’egli avesse pensato come una vendetta di Dio; e ne sarà stato men contento e men certo di sè; e gli sarà cresciuta la paura dell’Inferno e il cruccio della coscienza, e l’ostinazione e l’orgoglio stanco, figli quasi sempre della tristezza e della disgrazia.
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Se questi fu lo Zoppo. Infatti mi dicono alcuni nuovi ma cortesissimi e coltissimi amici lucerini, lo scrittore Colucci [2], l’avvocato Gifuni [3]e il prof. Catalini [4] fra gli altri, che si tratta di una attribuzione tradizionale e incerta. Ebbene, io trovo la risposta nel libro, che essi mi hanno regalato in ricordo di Lucera, di un celebre lucerino. Il Bonghi [5] registra questo detto del Manzoni: “La storia è assai grande, e più assai dubbia. Ottavio Castiglione [6], uomo dottissimo, finì per non crederne più nulla”. Con questa scusa, ora che la difficile estate comincia ad affaticare la Puglia, mando verso la città dotta e giuridica, che non sa consolarsi che le abbian traslocato l’antico e celebrato tribunale — e io, che dall’iconoclastia del progresso sento ogni giorno più farsi idolatria e fanatismo il mio amore per le tradizioni, capisco e approvo il sentimento — con questa scusa mando verso la quieta e ventosa Lucera queste fantasticherie di una mattina fresca della scorsa primavera in Duomo.
Riccardo Bacchelli
NOTE
[1] Pietro Egidi, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912
[2] Probabilmente Bacchelli si riferisce a Tommaso Colucci, giornalista e collaboratore de “Il foglietto”
[3] Giambattista Gifuni, che all’epoca esercitava ancora la professione forense, assecondando la tradizione familiare. Brillante scrittore e giornalista, successivamente dirigerà il Museo Civico Fiorelli e la Biblioteca comunale, lasciando una copiosa mole di scritti.
[4] Ermenegildo Catalini, giornalista e letterato marchigiano che all’epoca insegnava lettere presso il Liceo di Lucera. Sarà arrestato per la sua attività antifascista nel 1943, e diventerà nel dopoguerra una figura politica di primo piano nel Pci di Ancona.
[5] Nato a Napoli da famiglia lucerina, scrittore e giornalista, venne eletto deputato nel collegio lucerino per diverse legislatura, entrando a far parte, quale Ministro della Pubblica Istruzione del governo Minghetti
[6] Poliglotta, insigne figura di filologo operante, visse a cavallo tra il 1700 e il 1800. Ha tradotto in gotico diversi testi religiosi.
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Ecco i collegamenti ai reportage di Riccardo Bacchelli sul Gargano, publicati in precedenza da Lettere Meridiane:
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