Quelle statue misteriose che si affacciano su piazzale Italia (di Marco Laratro)

Raffinato giornalista, suggestivo narratore di storie oltre la cronaca, con cui per anni ha deliziato i lettori della Gazzetta del Mezzogiorno, prima di approdare all’Ufficio Stampa del Comune di Foggia, Marco Laratro regala ad amici e lettori di Lettere Meridiane questo bell’articolo sulle sei misteriose statue che campeggiano sul palazzo di piazzale Italia che i foggiani conoscono come Palazzo delle Statue. Da quasi un secolo ornano il palazzo, e impreziosiscono la piazza. Senza che, in tanti decenni, nessuno si sia mai preso la briga di raccontarle.

Lo fa, adesso, Laratro che riferisce dei risultati della ricerca condotta da uno studioso, tanto bravo quando modesto (perché ha preferito mantenere l’anonimato), che finalmente getta una luce storica e artistica su questo brandello di bellezza che ogni giorni sta sotto lo sguardo dei foggiani e non viene apprezzato quanto meriterebbe.

L’articolo è stato pubblicato su uno degli ultimi numeri del Murialdino, il bel periodico, dell’Associazione Amici ed Ex-allievi del Murialdo di Foggia. Lettere Meridiane ringrazia l’autore per aver consentito la pubblicazione dell’articolo e Michele Paglia per averlo mezzo a disposizione.

La foto che illustra il post è l’immagine colonizzata di una vecchia cartolina. L’immagine che compare nell’articolo del Murialdino potete, invece, vederla nel testo sotto. Buona lettura (g.i.)

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Sei statue antiche…in cerca d’autore. Pirandello, coi suoi “personaggi”, questa volta non c’entra: perché il mistero (o, piuttosto, l’attrattiva di una ricerca tra arte scultoria e mitologia) si affaccia a Foggia, dal lungo balcone di quello che è forse il più originale edificio della città: il “Palazzo delle Statue”, appunto. Questa nostra città, invero, può vantare un patrimonio di architettura e monumenti di straordinario – e forse non del tutto compreso e apprezzato – valore per numero, qualità, consistenza, varietà di stili: ma stranamente sembra difettare di immagini di significativo richiamo all’arte classica o neoclassica.

Se si eccettuano le ottocentesche figure dei Borboni, – pomposamente e anacronisticamente paludate in toghe, corazze e pepli romani nella ‘sala Fedora’ del Teatro Giordano – a colmare il vuoto restano proprio le sculture che si protendono verso piazza Italia dal quasi secolare balcone del “Palazzo delle statue”. È evidente come questo sia uno dei più singolari fabbricati di Foggia. Ma quanti possono dire di conoscerne appieno origini e funzioni ? Oggi è sede di uffici e civili abitazioni: ma venne eretto – in meno di due anni: fra il 1930 e il ‘32; architetto, Arnaldo Foschini – per essere la prima sede dell’Istituto autonomo per la case popolari. Ad alleggerire le linee di una struttura come questa, istituzionalmente operativa in campo socio-abitativo, ci si sarebbe atteso qualche elemento architettonico più coerentemente e austeramente schematico. Invece il progettista (che annovera, fra le sue tante creazioni, l’attuale sede della Farnesina – ex Palazzo del Littorio – di Roma, e a Foggia la Cappella-ossario dei Caduti) volle illeggiadrire la facciata schierandovi le copie marmoree di una serie di personaggi mitologici. Come mai? Ma, soprattutto, chi rappresentano? Strano che sinora non si sia ritenuto meritevole di più ampi, diffusi approfondimenti questo originale edificio col suo singolare corteo di dee e semidei. Ora, comunque, una risposta si profila, peraltro in maniera felicemente inattesa. Sì, perché il più fresco contributo di documentazione viene non dalla penna di qualche dotto erudito di storia locale, ma dal silente minuzioso lavoro di un oscuro e non meno apprezzabile studioso foggiano, non nuovo peraltro a impegnative ricerche in materie storico-filosofiche e di costume. E, con paradossale ironia, proprio lui, che in francescana modestia rifiuta anche il legittimo merito di una citazione, ha tolto forse l’ultimo velo di anonimato a questa suggestiva fila di statue che, per la verità, nella classica naturalezza delle loro forme hanno proprio ben poco da celare…; e, memore di certi indefettibili doveri di identificazione, con determinazione cultural-burocratica ha voluto dotare anche loro di una ideale “carta d’identità” storico-artistica. Eccole dunque, ad una ad una, – ciascuna col proprio nome finalmente – guardando da sinistra verso la civettuola passerella del balcone di piazza Italia.

 

“Venere di Capua”. Opera romana del II sec. d.C.: copia, a sua volta, di un originale bronzeo del IV secolo, di autore ignoto. La dea viene raffigurata in tutto il suo splendore dopo essere uscita trionfante dal ‘giudizio di Paride’. La fronte è ornata col diadema di Giunone, e la mano destra – ora vuota – è levata a reggere quella che in origine era la lancia di Minerva. Mentre cerca di specchiarsi nello scudo di Marte, col piede sinistro Venere calpesta l’elmo di quel dio, con un atto che sembra lanciare un romantico messaggio: l’amore trionfa sull’odio; e, sempre e comunque, è più potente della guerra…

“Atleta con disco”. Copia romana di un ‘discophore’, discobolo bronzeo che lo scultore greco Naucydes, nel 400 a.C., volle raffigurare in raccolta concentrazione prima del lancio. Il disco è in salda mostra nella mano sinistra. Ma c’è qualcosa, nella destra, che il tempo ha cancellato, e che sembra attrarre lo sguardo dell’atleta con la stessa rapita intensità con cui i nostri contemporanei, non solo giovani, pendono dagli smartphone: ne risentirà, infine, l’esito della gara?

“Satiro in riposo”. Anche questo, copia romana, tratta nel 130 d.C. dall’originale realizzato da Prassitele nel IV sec. avanti Cristo. Mollemente appoggiato al tronchetto di un albero, il Satiro scruta l’orizzonte in attesa di dare sfogo alle sue proverbiali sfrenatezze. Oltre che dalle orecchie aguzze, secondo gli esperti è riconoscibile dal perdalide: caratteristico mantello di pelle di pantera, che copre il busto in diagonale ed è fermato, sulla spalla destra, dalle zampe anteriori della belva, annodate sul petto e sulla schiena. Le gambe, però, sono muscolosamente umane, del tutto prive della zoccolatura equina o caprina che gli attribuisce la mitologia. Una domanda al grande Prassitele: il personaggio sarà pure “a riposo”: ma – orecchie e mantello a parte – è poi certo che sia un vero Satiro?

“Ganimede”. La statua raffigura il giovane principe – figlio di Troo, re dei Dardani – riconosciuto come il più bello tra i mortali del suo tempo. Giove se ne invaghì e, calando sulla terra sotto forma di aquila, lo rapì e lo portò nell’Olimpo per farne, assieme ad Ebe, il “coppiere degli dei”. Per questo – come per tanti altri atti analoghi – è quasi naturale vedere in Giove un augusto, intoccabile ma impenitente praticante anche di pedofilia, e precursore dell’“omoerotismo”: un sentimento che potrebbe comunque prescindere da una comune attrazione amorosa, per tradursi in forme, magari anche morbose, di tenacissima amicizia, sano cameratismo, “fratellanza di sangue”… Quello che si affaccia a Foggia sembra, comunque, un Ganimede solo apparentemente “double face”: certo, in una mano regge la coppa del suo onorifico servizio; ma con la sinistra è lui, modesto coppiere, che padroneggia con carezzevole sicurezza l’aquila appollaiata accanto, in cui si cela, nientemeno, il Padre degli dèi…

“Venere pudica”. Di tipo capitolino, è tratta da un originale di Prassitele del IV secolo a.C., denominato “Afrodite cnidia”. Ma dov’è il suo ‘pudore’? È vero che le linee del corpo – che anticipano di qualche tempo le più classiche rotondità botticelliane – sembrano sfuggire prepotentemente ad ogni casto tentativo di copertura e riparo delle mani. Ma, se è proprio “pudica” come vorrebbe far intendere il titolo, perché non usa la veste, che lascia invece negligentemente abbandonata su un’anfora al suo fianco? E poi: vista la generosità delle proporzioni, è proprio certo che si tratti di Venere e non, piuttosto, di…Giunone?

Quale che possa essere la sua reale identità, anche questa florida divinità, comunque, un giorno… perse la testa: non per qualche trasporto d’amore umano o divino, ma, più dolorosamente, perché troncata nei bombardamenti del ’43.

L’ha recuperata da poco con una laboriosa opera di restauro, e così ora può confermare i motivi per cui i critici, al di là di ogni altra ragione meramente estetica, esaltano la perfezione delle sue forme sotto un profilo anche scientifico.

Proprio attraverso l’abbigliamento adamitico, (o, boldrinianamente, dovremmo chiamarlo…’’evitico”?), infatti, Fidia ha voluto e potuto mostrare, nella scultura originale, la validità dei canoni della “proporzione divina” – o “rapporto aureo” – che ha poi trovato fin nel leonardesco “Uomo vitruviano” un elemento autorevole di continuità. Ignoto 6 (Antinoo?) Come definire altrimenti l’ultima statua del balcone? Il giovane raffigurato – anche lui, peraltro, per ‘par condicio’ sfrontatamente privo di indumenti – è l’unico che non presenti alcun particolare utile ad una precisa identificazione storico-artistica.

Tuttavia, qualche pur pallida somiglianza è stato possibile riconoscerla: ed è quella con un efebico Antinoo custodito nel Museo archeologico nazionale di Napoli.

La scultura marmorea, risalente al II sec. d.C., era stata scoperta nel corso degli scavi romani promossi da papa Paolo III Farnese. Il giovane Antinoo, originario della Bitinia, era il ‘favorito’ dell’imperatore Adriano, che aveva seguito fedelmente anche in un viaggio nelle colonie dell’Africa.

E lì, nel 130, ancora diciottenne, morì annegato nel Nilo. Caduto, suicida o… spinto?

L’imperatore, sconsolato, lo divinizzò e ne fece riprodurre l’immagine in centinaia di statue. Quella ritrovata si rifà al Doriforo di Policleto.

Lo sguardo del giovane è assorto e malinconico; ma, considerata la sua fine, avrebbe mai potuto avere un’espressione gioconda?

Alla luce dei risultati, anche la civile ‘ricerca di paternità’ delle Statue del singolare Palazzo foggiano potrebbe dirsi in qualche modo appagata.

Ad offuscarla – o esaltarla, secondo i punti di vista – viene un pensiero di Johann Joachin Winckelmann.

Quello che è considerato il più autorevole teorico del neoclassicismo aveva sentenziato, due secoli e mezzo fa, che “l’unica via per divenire grandi – e, se possibile, inimitabili – è l’imitazione degli antichi”. Una modesta perplessa domanda per l’illustre maestro: se l’“imitazione” per lui è tanto “unica” e essenziale, quale valore attribuisce allora all’opera originale da cui è stata tratta?

E avrà pure qualche briciola di merito l’artista che comunque ha creato quell’originale con personale ispirazione e geniale creatività?

Marco Laratro

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Author: Geppe Inserra

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