Non è stato l’artista foggiano più celebre ma sicuramente il più prolifico e quello che ha venduto di più. Sarebbe rimasto nell’anonimato, se non fosse stato vittima di un furto che, come vedremo rivelò al mondo l’impressionante fortuna che aveva accumulato con i suoi ritratti. Ne parlarono l’importante rivista di topografia ed arte napoletana «Napoli Nobilissima» e Vincenzo Ciardo gli dedicò un approfondito articolo nella pagina d’arte «Il Mondo» del 16 agosto 1955.
Domenico De Mita, noto anche come «Il foggiano», operò a Napoli nella seconda metà dell’Ottocento. Da non confondersi con il più blasonato Vincenzo De Mita (anche lui indicato con il soprannome de «Il foggiano») di cui fu forse un discendente.
Vincenzo lavorò per lo più nel campo dell’arte sacra, lasciando opere di un certo pregio. Quelle di Domenico non sono passate alla storia, ma potrebbero trovarsene ancora tante, appese ai muri delle case borghesi e aristocratiche del centro storico di Napoli. A suo modo, fu infatti un genio, un precursore del «fake», che gli procurò una vastissima committenza. Sfornava – come scrive Ciardo nell’articolo che potete scaricare nella sua versione integrale al link alla fine dell’articolo – «ritratti somigliantissimi, e quadri di « antenati » a richiesta dei poveretti che desideravano una genealogia per dar lustro alla casata.»

Operativa per una trentina d’anni fino agli inizi del Novecento, la sua bottega si trovava a Toledo, dirimpetto al chiosco di limonate di donna Carolina, resa famosa dalla canzone «Carolì» di Salvatore di Giacomo. In vetrina «certi bei ritratti collocati su fondi di velluti sgargianti» che adescavano i potenziali committenti.
La vivace descrizione che Ciardo offre della bottega è illuminante sia della particolare tecnica utilizzata dal «Foggiano» sia delle ragioni del suo successo. «L’interno dello studio era allarmante. Appesi alle pareti appoggiati ai mobili, disposti su cavalletti, si allineavano diecine e diecine di mezze figure dei due sessi, di grassi e di magri, militari e borghesi, viste di fronte, di profilo, di tre quarti, alcune con biglietto da visita in mano, o la busta da lettere, pronti ad accogliere il nome e cognome del futuro titolare del ritratto, in bella calligrafia a svolazzi. Tutte eleganti, con bei vestiti nuovi nuovi, senza una piega, che sembravano fatti in serie, però tutte mancanti della testa, posto della quale si vedeva il chiaro ovale della tela pulita. Il pittore l’avrebbe applicata dopo. Il cliente doveva solo indicare quale gli conveniva di quei manichini colorati.»
Bravo, Domenico De Mita lo era: «Aveva una capacità tutta sua di rilevare subito i dati della fisionomia, che lo distanziava di molto dai mestieranti del suo rango. Mai si dette il caso che non soddisfacesse il cliente, il quale era felice di vedersi ritrattato tale e quale, ringiovanito, con la pelle liscia come quella di un ragazzino». Un pittore affermato come Domenico Morelli mandava i suoi allievi a visitare la bottega di De Mita perché «si rendessero conto che anche per fare il Foggiano era necessario saper disegnare, saper copiare il vero.»
Era molto abile e veloce. La posa durava soltanto un’ora. Il prezzo dell’opera oscillava tra le trenta e le cinquanta lire di allora, che corrispondono più o meno a 150 e 250 euro odierni. Ciardo calcola nell’ordine delle migliaia le opere di cui fu autore.
Come detto prima, ai primi del Novecento, De Mita finì agli onori della cronaca per essere stato vittima di un furto che rende l’idea del cospicuo patrimonio che aveva accumulato. Ignoti ladri gli sottrassero 120.000 lire in titoli (oltre 600.000 euro attuali) ma non si accorsero di altri titoli per 200.000 lire, qualcuno dice 250.000 (ovvero un milione e 260.000 euro), che assicurarono comunque al Nostro una più che tranquilla vecchiaia.
Difficile dire se e in quali legami di parentela sia stato con l’altro «Foggiano», Vincenzo De Mita. Anch’egli operò a Napoli in un arco temporale compreso tra le fine del Settecento e il 1820. Allievo di Francesco De Mura, nella sua bottega operarono suo fratello Raffaele ed un altro De Mita, di cui si conosce solo l’iniziale del nome di battesimo, A. Si sa di un altro Vincenzo De Mita, che operò con discreta notorietà ad Avellino, nella seconda metà dell’Ottocento.
L’archivio di Stato di Napoli conserva un atto di matrimonio dal quale si evince che un Domenico De Mita, figlio di Pietro e di Grazia Avella, il 21 marzo 1811, sposò Anna Armaleo.
La possibilità che Domenico sia un discendente di Vincenzo è espressamente adombrata da «Napoli Nobilissima», che peraltro manifesta qualche dubbio su chi dei due sia stata più famoso. Dopo aver definito Vincenzo un «mediocre discepolo di De Mura», precisa: «Maggiore notorietà diede al soprannome del Foggiano il suo discendente Domenico De Mita, nei cui ritratti la somiglianza materiale era in ragione opposta del pregio artistico.»
Geppe Inserra
[Per scaricare l’articolo di Vincenzo Ciardo, cliccare qui. La foto che illustra il post è elaborata dall’intelligenza artificiale e non raffigura un quadro di Domenico De Mita]
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