Placito Capuano e Magna Capitana, primi vagiti della lingua italiana

La lingua italiana, che oggi risuona con tutta la sua ricchezza nelle conversazioni quotidiane, nelle pagine dei nostri libri, nei giornali, nell’anima narrante dei romanzi e dei testi letterari, nelle voci che ci parlano dalle televisioni, è il risultato di un dinamico e affascinante processo evolutivo.
Un cammino ininterrotto che l’ha vista nascere, crescere e trasformarsi, assorbendo influenze, affinando la sua grammatica e il suo lessico per diventare il veicolo espressivo che celebra la nostra storia e la nostra identità culturale.
Com’è noto, appartiene alla famiglia linguistica neolatina, il che significa che le sue radici affondano profondamente nel latino parlato, nel sermo vulgaris, quello utilizzato quotidianamente dalla gente dell’impero Romano.
Per secoli il latino rimase la lingua della cultura, della scienza, della letteratura e della Chiesa.
Con il declino dell’impero e la frammentazione politica, il latino volgare cominciò a differenziarsi dando vita a innumerevoli dialetti locali, ognuno legato strettamente al proprio territorio.
Il primo timido esempio che la storia ci restituisce è l’indovinello veronese, risalente all’Ottocento circa.
Si tratta di una breve composizione trovata in un manoscritto della Biblioteca Capitolare di Verona, che descrive un’azione quotidiana in forma enigmatica.
L’indovinello paragona l’azione dello scrivano a quella di un contadino che ara un campo.
Questo breve testo, però, ci offre uno scorcio di un volgare ancora fortemente intriso di latinismi:
Se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro seme seminaba
Tradotto: Davanti a sé spingeva i buoi, arava bianchi prati e teneva un bianco aratro e seminava un nero seme.
La soluzione di questo indovinello è lo scrivano:
Teneva davanti a sé i buoi (si riferisce alle dita della mano che guidano la penna),
Amava bianchi prati (i prati bianchi sono le pagine del manoscritto, ancora intonse),
Teneva un bianco aratro (l’aratro bianco è la penna d’oca) e seminava nero seme (il seme nero è l’inchiostro che viene sparso sulla pagina).
Nonostante la sua natura giocosa e la forte presenza latina, l’indovinello è un segno tangibile di una lingua che cominciava a rendersi autonoma anche se ancora intrisa di latino.
Dopo l’indovinello Veronese dobbiamo fare un salto di oltre un secolo per incontrare il Placito Capuano.
È un documento risalente al marzo del 960 scritto in volgare campano dal giudice Arechisi di Capua, per risolvere una disputa tra l’abbazia di Montecassino e un feudatario, Rodelgrimo.
Siamo negli anni in cui Aligerno è Abate di Montecassino e Capua, località quest’ultima dove la comunità monastica benedettina si trovava in esilio dopo che l’abbazia di Montecassino era stata distrutta dai Saraceni nell’anno 883.
Quando Aligerno riuscì a ricondurre la propria comunità a Montecassino constatò che, nel frattempo, un’ampia superficie di circa 20.000 ettari di terreno di pertinenza del Monastero di San Benedetto, era stata occupata da un certo Rodelgrimo, nativo di Aquino, contro il quale cercò di far valere i propri diritti.
Rodelgrimo, dal canto suo, sosteneva che i terreni contestati gli erano pervenuti in eredità dal padre e da altri suoi parenti ma, purtroppo, a supporto della sua affermazione, non era in grado di produrre alcuna testimonianza.
La controversia si concluse con la vittoria di Aligerno.
Infatti lo iudex cibitatis Arechisi deliberò a favore dell’abbazia dopo aver sentito le testimonianze di Teodomondo, (diacono e monaco), di Mari (chierico e Monaco) e di Gariberto (chierico e notaio) che Aligerno aveva prodotto come testimoni.
I tre testimoni, che deposero a favore del legittimo proprietario,  affermando di sapere che “quelle terre, entro i confini descritti, trent’anni le aveva possedute il complesso patrimoniale di San Benedetto”, ripeterono una formula che sarebbe entrata nella storia della lingua:
Sao ko Kelle terre per kelli fini que Ki Kontene trent’anni le possette parte Sancti Benedicti
La sentenza dipendeva dalla capacità di dimostrare l’uso trentennale delle terre in questione.
Quando il giudice dovette ascoltare le testimonianze a favore dell’Abbazia decise di trascriverle con il volgare campano, per garantire che la sentenza fosse accessibile e intellegibile non solo al Rodelgrimo, ma anche agli altri presenti all’udienza, inclusi i testimoni e tutta la gente comune.
Davvero una frase epocale!
Per la prima volta nella storia, una sentenza fu ufficialmente riconosciuta e trascritta non in latino ma in volgare, con l’intento esplicito di renderla comprensibile a chiunque.
Questa testimonianza scritta, di natura pratica e giuridica, è considerata universalmente il primo documento ufficiale della lingua italiana, il suo primo vagito, nella forma di un volgare campano, parlato dalla gente comune.
Infatti, a differenza dell’ indovinello veronese, nel Placito Capuano non si riscontrano affatto influenze dal latino o da latinismi.
Da questo primo fondamentale atto di nascita, la lingua volgare continuò a evolversi e a fiorire in diverse regioni assumendo tratti distintivi e irripetibili, con proprie peculiarità fonetiche, morfologiche e lessicali, in ogni nucleo urbano e centro abitato.

In apertura, il Placito Capuano. Qui sopra, re Enzo, condotto nelle carceri bolognesi.

Si arriva così al 1200, un secolo speciale che vede la nascita della Scuola Siciliana alla corte dell’imperatore Federico II di Svevia.
Poeti come Jacopo da Lentini, Cielo d’Alcamo e Guido Colonna si dedicarono alla lirica d’amore elaborando una poesia raffinata e innovativa, vero modello del volgare siciliano.
Ne è un esempio toccante la “canzone” di Enzo, quando fatto prigioniero a Bologna durante la battaglia di Fossalta del 1249, esprime il suo profondo lamento e la struggente nostalgia per la Magna Capitana, dimostrando la capacità del volgare siciliano di cantare non solo l’amore, ma anche i più alti e drammatici sentimenti umani:
Và, canzonetta mia / e saluta messere / dilli lo mal ch’i’aggio / quelli che m’à ‘n bailìa / sì distretto mi tene / ch’eo viver non por{r}aggio. / Salutami Toscana
quella ched è sovrana / in cüi regna tutta cortesia: / e vanne in Puglia piana, / la magna Capitana, / là dov’è lo mio core nott’e dia

Tuttavia fu nel 1300 che il volgare italiano trovò la sua consacrazione definitiva grazie al genio di tre giganti della letteratura, Dante, Petrarca e Boccaccio.
Grazie alla Divina Commedia fu Dante il principale artefice della significazione e della diffusione del volgare fiorentino: un’opera monumentale, il capolavoro insuperabile della letteratura mondiale, che dimostrò appieno la capacità del volgare di esprimere concetti filosofici aristotelici, teologici e strutturali di altissimo livello, intrecciati di eventi storici, mitologici, personali e dottrinali consacrandolo a lingua letteraria per eccellenza.
Fu il volgare di Dante, Petrarca e Boccaccio, quindi, a imporsi gradualmente sugli altri volgari regionali diventando il modello per la futura lingua nazionale.
La sua ricchezza lessicale, la sua sintassi complessa e la sua straordinaria capacità espressiva resero la scelta naturale per l’unificazione linguistica.
In verità il processo di affermazione del volgare fiorentino come lingua nazionale non fu immediato e senza ostacoli, poiché pur essendo il volgare letterario di riferimento, il linguaggio culturale era il latino che continuò ad avere un ruolo dominante in ambito scientifico, nelle Università Europee, in tutti gli atti ufficiali e in varie procedure ecclesiastiche. Sebbene la questione della lingua fosse annosa, fu soltanto con l’Unità d’Italia, proclamata il 17 marzo 1861, che si affermò ufficialmente l’idea di adottare la lingua parlata e raffinata di Firenze come base per la lingua nazionale, superando le frammentazioni dialettali che ancora oggi caratterizzano gli italiani.
Tale indirizzo fu promosso con particolare vigore, tra gli altri, da Alessandro Manzoni che vedeva, nel fiorentino colto il modello più puro e vero.
Oggi la lingua italiana è un ponte tra le diverse anime regionali del nostro paese, un’eredità preziosa che affonda le sue radici nel vagito di oltre un millennio fa, e che continua a evolversi testimoniando la ricchezza e la vitalità della nostra storia culturale È la prova evidente di come la lingua, da semplici parole in vernacolare scritte su una pergamena come il Placito Capuano, attraverso secoli di storia, di scambi culturali, di intuizioni geniali di poeti, scrittori e pensatori, ben più che un ricchissimo vocabolario, ha modellato la nostra identità culturale e comunicativa in ogni campo.
Salvaguardare e coltivare la lingua significa non solo onorare un inestimabile patrimonio, ma anche garantire la ricchezza espressiva del nostro futuro collettivo.

Enzo Ficarelli

Author: Enzo Ficarelli

1 thought on “Placito Capuano e Magna Capitana, primi vagiti della lingua italiana

  1. la storia di Foggia mi ha sempre affascinato e quanto pubblicato su codesto sito, oltre ad essere interessante, è scritto in maniera facile a leggere e forbita.
    Complimenti all’autore.

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