
Marco Laratro è stato molto più che un giornalista attento e raffinato, uno scrittore di razza, un poeta: era, prima di tutto, una bella persona, che faceva della mitezza d’animo una vera e propria filosofia di vita.
Sarà stato per questo che, oltre a scrivere articoli destinati a restare fissati nella memoria collettiva come racconti del tempo che fu, componeva versi, e lo faceva così bene da meritare significativi riconoscimenti come il recente Premio Speciale della Giuria a Cortona Città Del Mondo e il Premio Caggese.
La mia amicizia con lui risale a molti anni fa, perché siamo stati «dirimpettai»: io mi occupavo dell’ufficio stampa della Provincia di Foggia, lui di quello del Comune.
Eravamo accomunati dallo stesso obiettivo e dallo stesso metodo di lavoro: fare sì che la comunicazione pubblica fosse, prima di tutto, uno strumento di servizio, che avvicinasse i «palazzi» che rappresentavamo ai cittadini.
Il mestiere lo avevamo imparato entrambi nella bottega della redazione foggiana della Gazzetta del Mezzogiorno (lui qualche anno prima di me) e da un maestro d’eccezione come l’indimenticabile Anacleto Lupo.
Era un fedele lettore di Lettere Meridiane e qualche volta gratificava amici e lettori del blog con deliziosi articoli venati da una ironia composta e sottile, sempre all’insegna della nostalgia per quella Foggia bella e possibile che ha spesso raccontato (li ripubblicherò nei prossimi giorni).
Laratro è stato un autentico precursore di un giornalismo orientato alla riscoperta delle radici e delle tradizioni della città e del territorio. Ha cominciato a farlo in tempi non sospetti, quasi come un antidoto ad una cronaca che si appiattiva sul presente, dimenticandosi di valorizzare il passato.
L’ultimo scambio risale solo a qualche giorno fa, quando Marco ha commentato con la consueta affabilità, un articolo che aveva scritto su Giorgio Rognoni, centrocampista del Foggia tutto genio e sregolatezza: «Grazie con tre “zeta”, caro Geppe. Riacciuffare lembi di memoria di qualsiasi genere e a qualunque età, è un impagabile prolungamento dei nostri giorni…»
Peccato che i giorni di Marco si siano così repentinamente interrotti, portandosi dietro chissà quante altre parole, chissà quanti altri pezzi di memoria. Ma quelle che ci ha lasciato continuano a parlarci, come dimostra l’articolo della Gazzetta del Mezzogiorno che voglio riproporre qui.
Quasi un articolo a quattro mani, in quanto l’autore recensisce una conferenza e un libro di un personaggio altrettanto attento alla importanza di ciò che siamo stati: Michele Mazzei, medico e scrittore molto noto, padre della indimenticabile Marina, archeologa, pioniera e protagonista della valorizzazione del patrimonio archeologico della Daunia.
Pubblicato dal quotidiano regionale il 17 settembre del 1972, l’articolo ha un titolo che è già un programma: «La città antica un patrimonio da non perdere». Altrettanto significativo l’occhiello: «Nel capoluogo di autentico è rimasto poco».
Buona lettura.
Geppe Inserra
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Foggia, 16 settembre
Foggia: com’era e com’è. Itinerario ideale, suggestivo e romantico, tra presente e passato, sul filo della realtà, sull’onda dei ricordi. Per percorrerlo, questo cammino singolare ma reale, un medico della nostra città ha lasciato ogni tanto scalpìccio e curiosità, ha impugnato la penna, ha strizzato l’occhio sul teleobiettivo. Risultato, una testimonianza preziosa e documentata, un percorso d’immagini nitide e parole chiare, che Michele Mazzei (è lui il medico di cui oggi parliamo: è stato, fra l’altro, tra i dieci segnalati al Premio nazionale «Abbazia» 1972 di saggistica, bandito dal Corriere dell’Adda) ha disegnato con sapiente mano e profonda introspezione d’animo, in salvaguardia di tanti preziosi cimeli del passato.
Documenti di storia
A Foggia, città antichissima, è rimasto ben poco dei monumenti antichi: quel poco si sta inesorabilmente perdendo per l’indolenza degli uomini, per l’avanzar del tempo. Un piccolo patrimonio di antichità, di stemmi e ricordi in abbandono. Che ne facciamo di questi tesori d’arte, di questi massicci documenti di storia? Come salvarli, come tramandarli? A queste domande ha voluto appunto rispondere Michele Mazzei, che con l’attività professionale ha coniugato l’amatissimo studio dell’arte e dell’archeologia, rimettendo insieme un suggestivo repertorio di figure e parole. Sul lenzuolo affisso a un ideale telaio nella penombra, si va dipanando una distesa di immagini bianche di intagli, ora nette e luminose, ora care e familiari al cuore d’ogni foggiano.
Ecco dunque la città come è stata e come permane: dal XVI secolo, cinta di mura e irta di torri (al centro, possenti, il palazzo reale e la Cattedrale, stampa del XVIII secolo tratta da un’antica veduta); delinea con maggior precisione il Settecento, con il palazzo Federiciano, la casa di Carlo I re di Napoli, Palazzo Dogana, già sede del Re e della Rosa del Vento con un capitello di 600 chili, la chiesa dei Gesuiti e quello dei Cappuccini; la torre di Belvedere e il monastero di S. Francesco.
La “testa di saraceno”
Lo sviluppo urbanistico più ampio ed intenso la città l’aveva avuto comunque sotto Federico II. Nella zona dove termina attualmente corso Vittorio Emanuele, all’angolo di via Pescheria, fu eretta la regia maestosa; ci sono rimasti, di quel periodo, l’enigmatica “testa di saraceno” che sormonta l’arco d’un portone; un pozzo in piperno e travertino, opera dell’architetto Adolfo Mastrilli, e un portale (le dispostissime “Nonne” dicono sia la muratoria), ancora al suo posto, che in piazza Nigri ospita conservatore musicale.
Periodo angioino. Sotto Carlo I d’Angiò in particolare la città si estese ad occidente della Cattedrale verso l’attuale corso Garibaldi, dove fu costruito un palazzo reale del re; non ne è rimasta traccia. Foggia era allora divisa in cinque quartieri: San Giorgio, Sant’Agostino, San Giovanni, San Tommaso e Massapignano; e la traversata corrispondeva alle vie Campanile, Dell’Altare, Orfanato e ai tratturi che (Camporeale, Melfi, Ordona) si univano all’incrocio di piazza Nigri.
Le chiese, numerosissime: quella di S. Eligio, la più antica, situata tra la chiesa dei Cappuccini e quella di S. Giovanni; quella di S. Agostino, la cui denominazione popolare, comunque, non è esatta: il tempio è dedicato infatti — ha spiegato il medico-scrittore — alla Madonna della Cintura, e intorno al 1840 fu adibita agli usi più vari e impensati: prima, poi, Casa delle donne derelitte e abbandonate e, successivamente, ospedale femminile e clinica di maternità e infanzia. Sul portone c’è un stemma di rilievo: sono dedicati a Carlo III di Borbone e a mons. Aledo Summatico.
Singolare e chiusa in un’aria assorta di gravità e dolore, poi, la Real chiesa del monte Calvario (confraternita detta “Cappellone”); e tutta la topografia di Foggia si completa di costruzioni religiose. Con le sue “piazze nuove” – a cominciare da quella di Piazza Mercato – la Foggia del tempo angioino si è definita come una città distinta, ricca e ben organizzata, con la Casa del Re, i palazzi dei funzionari, le strade lastricate.
“Le prime strade foggiane — scrive Mazzei — avevano uno sviluppo naturale, secondo i tracciati dei tratturi, e seguivano l’andamento del terreno, senza mai forzarlo”.
“Cosa resta oggi di questo passato? — si chiede ancora Mazzei — Ci sarà mai un piano di restauro, di valorizzazione, di riscatto? O sarà necessario demolire per sostituire?” ha suggerito il dotto Mazzei. Palazzo Dogana, tanto legato alle vicende della transumanza; di quel faticoso, antico e triste trasferimento periodico (da trans humus, ci ricorda Mazzei) di muli e buoi condotti a greggi lungo piste secolari. Al tempo di Alfonso d’Aragona codici erano i tratturi maestri (per uno sviluppo di 1.400 chilometri e misurabile complessivamente altri 1.500 chilometri) i tratturelli d’innesto.
La chiesa del Calvario
E tutti avevano Foggia per meta. Zona di confluenza una spianata all’imbocco di quella che attualmente è via Manzoni. Lì, ancor oggi, tozzo e scontroso, eppure di grande sobrietà, si erge il tempio caratteristico a pianta “a Epitaffio” (da epigrafe): un monumento quadrato con scalinate ai quattro lati, una esagonale sopra cui si innalza un timpano, figura di calice.
“Il Calvario — ha scritto Mazzei — è un unicum nel panorama architettonico italiano: segno di una Foggia che ha saputo unire l’arte alla fede, la pietà alla devozione”.
I fogli e le immagini di quest’ideale diario tra cronaca, storia e leggenda si sono susseguiti a ritmo incalzante; ecco il teatro, dal tempo della costruzione che l’ha mutato nome tre volte: “Real teatro”, nel ’28; a “Teatro Duomo” e dopo la fine della guerra a “Teatro Giordano”; ai nostri giorni il monumento ai Caduti; l’aristocentrico caffè e Farina, ora scomparso; la storica piazza Cavour, “che quasi mezzo secolo fa — nel 1932 — offrì il transito a una delle più suggestive feste cittadine: la secolare, suggestiva chiesa di S. Antonio abate; piazza Santa Chiara, con l’antico convento; i candido colonnato della Villa comunale; tante immagini di ieri e di oggi, attraverso le quali Michele Mazzei disegna con nostalgia e rigore una città che cambia, ma conserva il cuore antico.
“Perdendo il suo patrimonio d’arte e di storia, una città smarrisce la propria anima”, ha detto Mazzei, che ha lanciato un appello perché la memoria diventi responsabilità collettiva e cultura viva.
Il suo volume è un invito alla riscoperta del volto autentico di Foggia, al di là del logorio del tempo, con discrezione d’artista e passione di chi non si rassegna a dimenticare.
Marco Laratro

Grazie x qsa pubblicazione “a ricordo”.
Ho le lacrime agli occhi al pensiero di care e qualificate persone del tempo andato della nsa Foggia …😥
Grazie per aver ricordato una bellissima figura che tanto ha fatto e tanto si è spesa per mantenere viva la nostra memoria.
È solo sconsolante leggere come già nel 1972 qualcuno denunciava il depauperamento e l’abbandono del patrimonio storico e culturale della nostra città.
Dopo 53 anni la situazione è solo peggiorata. Colpa delle istituzioni e colpa della collettività che hanno sempre girato il capo altrove. Non possiamo, quindi, che constatare, mestamente, come la città abbia “smarrito la propria anima”.
Non possiamo nemmeno sperare nei “tempi migliori” perché ciò che si è perso non torna più.
Una perdita dolorosa per davvero. Marco era un collega serio, riservato e di una onestà intellettuale invidiabile. Una persona corretta. Ho avuto modo di conoscerlo lavorandoci assieme per molti anni al Comune di Foggia. Mai uno screzio. Un gentiluomo elegante e riservato come ce ne sono pochi. Mi spiace molto.
Grazie per questa bellissima pubblicazione 👏👏
Ho accolto con grande dolore la notizia della scomparsa dell’amico e collega Marco Laratro e ancora adesso stento a crederci. Perchè Marco era (diventato) tante cose per me: collega ai tempi dei rispettivi Uffici Stampa (lui al Comune, io in Provincia), quando mi interpellava per ricevere copia del famoso indirizzario Istituzionale che gestivo e aggiornavo con grande cura; collega in giornalismo per averlo avuto tra i collaboratori della rivista DIOMEDE – che ridirigo dal 2022 – per la quale da anni mi inviava deliziosi articoli di storia locale senza mai la pretesa che glieli pubblicassi (e, prima ancora, nostro abbonato sostenitore); sensibile alla causa delle vittime civili di guerra tanto da accettare l’invito dell’A.N.V.C.G. a contribuire con un suo intervento a fine ottobre.
Marco era anche un fine ed eclettico poeta ma, soprattutto, una persona perbene, mite, schiva, di grande cultura ed estranea, come me, dalle logiche social.
“Peccato che i giorni di Marco – ha scritto qui l’amico Geppe – si siano così repentinamente interrotti, portandosi dietro chissà quante altre parole, chissà quanti altri pezzi di memoria.” Tranquilli: DIOMEDE pubblicherà ancora i suoi articoli, almeno quelli che solo pochi giorni fa mi aveva inviato. Li ho molto graditi e li considero una sorta di eredità, per me e per la nostra rivista. Mi stimava e mi voleva bene, tanto da chiamarmi “fratellone”. Buon viaggio “fratel Marco”.