Viviamo in una società che ha perduto la capacità di vergognarsi, nel senso profondo e importante che in questo articolo Marcello Colopi illustra approfonditamente. Consiglio agli amici e lettori di Lettere Meridiane di leggerlo con attenzione e con calma, perché l’articolo non è soltanto un bell’esercizio di pensiero, ma è anche un’attualissima riflessione sulla crisi etica che colpisce la nostra società, in qualche modo veicolata proprio da quelle istanze – come i mass media o i social – che dovrebbero migliorarla. Buona lettura. (g.i.)
* * *
Quando studiavo Sociologia della Conoscenza con Franco Cassano approfondimmo un concetto che da allora ha un po’ regolato la mia visione culturale; il concetto sociologico è quello della Civiltà della vergogna.
Con “civiltà di vergogna” si indica una società regolata da determinati modelli positivi di comportamento la cui trasgressione e mancata adesione ha, come conseguenza, il sentimento di vergogna dell’individuo, con la conseguente perdita di autostima e sofferenza oltre che al biasimo concreto e reale dell’intera comunità. Quindi, le ripercussioni della mancata adesione a questi canoni, sono duplici nella loro forma di sanzione interna ed esterna.
La vergogna segnala uno stato per il quale un soggetto viene meno agli obblighi formali legati a una certa carica e ruolo. La pena, nelle civiltà della vergogna è il disonore e l’orgoglio ferito. In quel periodo studiavamo che, malgrado si tratti di un’emozione indubbiamente dolorosa e annichilente, la vergogna può tuttavia concorrere ad alimentare buone pratiche sociali. È il caso della vergogna “preventiva” che ci trattiene dal compiere azioni potenzialmente negative. In sostanza, in ogni società e in ogni cultura esistono azioni, che onorano e disonorano, che arrecano onta e vergogna. La vergogna è l’emozione che accompagna l’auto-valutazione di un fallimento globale nel rispetto delle regole, scopi o modelli di condotta condivisi con gli altri; da una parte è una emozione negativa che coinvolge l’intero individuo rispetto alla propria inadeguatezza, dall’altra è il rendersi conto di aver fatto qualcosa per cui possiamo essere considerati dagli altri in maniera totalmente opposta da quello che avremmo desiderato.
Il concetto dell’integrità, soprattutto in una dimensione politica e sociale è il livello della stima che gli altri riservano alla nostra condotta derivante dai valori di riferimento. Faccio un esempio: quando ero bambino nella mia città, Cerignola, dire ad una persona “quello è un comunista” significava farli un complimento collocandolo in una dimensione non solo politica ma sociale e valoriale. Mi spiego: gli si riconosceva una rettitudine di fondo, una voluta incapacità ai compromessi, una fermezza nelle idee e nelle decisioni e soprattutto una chiara scelta di campo che si identificava con uno stile di vita proprio di quella comunità. Appunto: “sei un comunista” significava tutto ciò. Era impossibile che un comunista fosse un uomo corrotto o che utilizzasse il suo potere (che nello specifico derivava da un potere conferito dai compagni) per fini propri o per interessi personali. Se malauguratamente ciò avveniva (e qualche volta avveniva) il senso di vergogna non solo del singolo ma di tutta la sua comunità di appartenenza era forte e visibile in quanto vi era una consapevolezza: il pensiero e l’agire dell’uomo politico sono totalmente proiettati verso l’esterno. Lo stesso accade nel mondo ecclesiastico: il comportamento vergognoso di un religioso inevitabilmente si scarica sulla propria comunità di appartenenza, non è solo vergognoso per il singolo religioso ma diventa onta per la sua chiesa.
In sostanza, la vergogna è un sentimento “intrinsecamente sociale e relazionale”: si prova vergogna di fronte a “un pubblico” che ci guarda e ci giudica e ci fa percepire sentimenti di disapprovazione. E quel pubblico è la mia comunità, i miei compagni, il mio mondo sociale e civile.
Scopro l’arcano del mio ragionamento: per i sociologi, lo studio della vergogna è una cartina di tornasole potentissima per comprendere i mutamenti nei valori morali in una data società.
Analizzando il senso della vergogna per comprendere i mutamenti di valori nella nostra società, oggi ci rendiamo conto che il sistema valoriale è fortemente cambiato in quanto il mondo dei media (televisione, social) premiano soprattutto personaggi che danno un’immagine negativa di sé, anzi che su quest’immagine costruiscono il loro successo, non la loro vergogna. Questo è il paradosso della nostra dimensione sociale: da una situazione che dovrebbe essere di vergogna si trae popolarità invece che pubblica riprovazione. Questo accade perché si persegue un unico obiettivo: colpire il pubblico, magari dandogli in pasto una pochezza nella quale specchiarsi, con la quale confrontarsi, nella quale ritrovarsi o alla quale contrapporsi perché tutto ciò è mediocremente rassicurante. Siamo insomma di fronte a quella “idealizzazione del banale e dell’insignificante”, di cui hanno parlato diversi studiosi. “Lo sguardo ammirato di molti – scrive Marco Belpoliti – non si rivolge più a persone di notevole valore morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto”. Venendo meno il senso della vergogna, di conseguenza è venuto meno il senso dell’onore. In quanto per provare vergogna bisogna avere in sé anche il senso dell’onore. Come ci mostrano i fatti, questo sentimento manca proprio nei vertice della società (e da questi inevitabilmente a cascata su tutti gli altri strati sociali). Politici che promettono sul proprio onore che se sconfitti si ritireranno dalla politica e ciò non avviene, dirigenti di impresa (pubblici e privati) che finiscono in manette e non modificano di una virgola la propria condotta; ladri e corruttori che diventano personaggi di talk show, e via discorrendo. Possiamo affermare che tra le tante crisi oggi è in crisi anche il sentimento della vergogna, che non genera terapeutici sensi di colpa, non induce a rafforzamenti del senso etico, non riafferma modelli di comportamento condivisi, non rinsalda il sentire sociale.
Il sentimento della vergogna, quello che sovviene dopo un senso di colpa, quello che scaturisce da un lavorio di riflessione in sé, nel proprio io etico e di relazione con un altro da sé portatore di un senso morale è, non solo, poco frequentato ma anche poco apprezzato (la vergogna oggi è addirittura percepita come debolezza).
Bisognerebbe invece indurre alla riscoperta di questo sentimento che ha un intrinseco valore relazionale e sociale, insegnarlo fin dalle scuole (insegnarlo e insegnare a gestirlo, sia ben inteso, perché una sua cattiva gestione può essere deleteria quanto la sua assenza). Riappropriarsi dunque della vergogna, perché solo attraverso essa si può indurre la formazione delle nuove generazioni alla conquista di valori forti su cui giocare la propria vita e attraverso cui guardare al futuro.
Marcello Colopi
Views: 217