Com’è nato e perché è nato il Festival del Cinema Indipendente di Foggia

Print Friendly, PDF & Email

Luciano Emmer, primo presidente di Giuria

Dodici anni, forse qualcuno in più (diremo poi meglio di questa incertezza anagrafica). Abbastanza, o troppo pochi, per raccontare gli albori del Festival del Cinema Indipendente di Foggia, come si trattasse di un pezzo della storia culturale della Capitanata? 

Come sempre, la risposta dipende dai punti di vista. Dodici anni sono decisamente pochi, se si considera che per radicarsi un festival di cinema ha bisogno di decenni. Ma sono verosimilmente sufficienti, se si tien conto della fisiologica caducità delle manifestazioni culturali in questo lembo di Puglia, e non solo: nonostante oggi inauguri la sua dodicesima edizione, il Festival è tra le più longeve manifestazioni del genere, in una Puglia in cui i festival del cinema nascono e muoiono come falene.
E poi le storie servono a consolidare identità, a custodire la memoria del passato, ancorché prossimo. E raccontiamola dunque la storia degli albori del Festival del cinema di Foggia. A partire dall’incertezza anagrafica di cui si diceva prima.
Dodici anni, dunque o tredici, o addirittura quattordici? A ricordarmi che il festival ha avuto un numero zero (me n’ero dimenticato, ma anche la memoria di un fondatore certe volte può vacillare) è stato uno dei meravigliosi volontari che hanno deciso di condividere con noi l’avventura. 

Nico D’Alessandria, vincitore
della prima edizione

Quel numero zero – tenutosi il 27 aprile 1999 nella Sala del Tribunale di Palazzo Dogana, ad iniziativa del Cinema d’Essai Falso Movimento e della Provincia – rappresenta in effetti un crocevia: punto d’inizio, ed al tempo stesso punto d’arrivo di un intenso processo a sua volta iniziato alcuni anni prima. Il tema stesso svela una scelta di fondo: “Onda d’urto – Giornata del cinema indipendente”.

Quella serata fu il momento culminante di un importante processo che si era sviluppato in città  nei cinque, sei anni precedenti e che va raccontato perché svela la lunga gestazioni ma anche le motivazioni del festival. 
Tutto era cominciato al Falso Movimento, in via Campanile.  Mauro Palma, direttore e proprietario della sala d’essai, aveva bisogno di qualcuno che conducesse gli incontri con gli autori, che sempre più frequentemente ospitava. 
Mi chiese di farlo, accettai, e fin da subito fu chiaro che, oltre all’amicizia, nasceva un’idea, un progetto di cui il Festival sarebbe stato la logica, inevitabile conclusione. Bastò già  il primo, indimenticabile incontro a far scoccare la scintilla. E quella serata fu forse il viatico di tutto quanto sarebbe successo dopo. Di scena Luciano Emmer, con il suo Basta, ci faccio un film che segnò il suo ritorno al grande schermo, trent’anni dopo La Ragazza in vetrina
Era il 1991, e fu amore a prima vista, con quel giovane-vecchio maestro del cinema italiano, in grado di tenere quattro o cinque incontri in una giornata sola, senza dare a vedere il minimo segno di stanchezza. E si trattò di una giornata importante per la storia del cinema italiano, perché proprio quella sera Luciano si accorse, per la prima volta nella sua vita, che la censura aveva privato La Ragazza in Vetrina di una delle sequenze più significative. Si tratta della scena in cui Else, prostituta che si era innamorata del minatore italiano Vincenzo, chiede al suo ragazzo in procinto di tornare in Italia quel bacio che gli aveva negato, la prima volta era stata con lui. Appena concluso il dibattito su Basta, ci faccio un film (ed era ormai quasi mezzanotte), Emmer chiese ed ottenne da Mauro Palma la proiezione de La Ragazza in Vetrina, al solo scopo di raccontare la sequenza censurata. E da quel giorno avviò una serie di iniziative che si conclusero con la “riabilitazione” della scena tagliata.
Un bel po’ di pubblico condivise quella maratona cinematografica, e con Emmer (tra Emmer e la città), nacque un rapporto che è durato praticamente fino alla sua scomparsa, sfociato nella realizzazione del mediometraggio Foggia non dirle mai addio (1997) e nel Cardo Rosso, la storia di un terrazzano foggiano. Il film non è purtroppo mai stato concluso, per la dipartita dell’autore.
La storia del festival è una storia di relazioni, di amicizie, di un progetto che via via che viene condiviso diventa movimento. Il salto di qualità giunge dall’incontro con Vittorio Affatato e dalla nascita dell’Aiace (Associazione Italiana Cinema d’Essai). Gli incontri con gli autori diventano sistematici, l’associazione dà vita anche al primo giornale foggiano specializzato in cinema (Pagine), ma soprattutto cresce in modo esponenziale il pubblico. Quasi sempre il Falso Movimento registra il tutto esaurito. 
Per via Campanile passano non solo giovani autori come Nico D’Alessandria, Paolo Benvenuti, Gianluca Tavarelli, Mario Brenta, Maurizio Zaccaro, Emanuela Piovano, David Emmer o attori come Roberto Citran, Alessandro Haber  e Giuliana De Sio, ma anche maestri come Francesco Rosi,  Alberto Lattuada,  Gianni Amelio,  Mario Monicelli,  e naturalmente Luciano Emmer, che a Foggia presenterà tutti i suoi film.
È durante questi incontri che comincia a farsi strada l’idea di un festival. 

Ogni serata, ogni film presentato producono un innamoramento. Si tratta di film che quasi mai imboccano la strada della vera e propria distribuzione nelle sale. Si limitano ai circuiti d’essai. Ma il fatto è che son film che piacciono, quanto e spesso di più di quelli che si vedono nei cinema normali. Piacciono nel senso più vero del termine: conquistano il pubblico, lo divertono o lo commuovono, lo appassionano e lo emozionano.

Il cinema indipendente italiano è senz’altro migliore di quanto non dicano i borderò della Siae. Ma è un cinema emarginato dalle logiche industriali, e certe volte un po’ schizoidi, che governano la produzione cinematografica italiana. Tanto per dire, buona parte dei film presentati in quegli anni al Falso Movimento è sostenuta dal contributo ministeriale: lo Stato sostiene la produzione del cinema di qualità, ma si disinteressa del problema più importante: fare in modo che questo cinema venga visto, fruito e distribuito nel circuito cinematografico normale.
Assieme a Mauro e a Vittorio, cominciamo a pensare che un festival del cinema indipendente sarebbe una vetrina importante: un modo per sistematizzare e dare nuove opportunità di fruizione a questo cinema invisibile. Ma fare un festival non è mica cosa da poco, l’Aiace non può riuscirvi con le sue sole forze, occorre un sostegno dall’amministrazione locale che sembra però piuttosto refrattaria ad occuparsi di cinema.

La svolta giunge dall’amministrazione provinciale presieduta da Antonio Pellegrino, e dai suoi colleghi di giunta, Valeria De Trino e Ciro Mundi. Quest’ultimo ha una intuizione che da un lato stringerà ancora di più il rapporto tra Foggia ed Emmer, e dall’altro rappresenterà l’inizio di un rapporto sempre più intenso tra l’ente di Palazzo Dogana ed il cinema.

Nel 1996, ad iniziativa di Rocco Pasquariello, si svolge a piazza XX settembre una delle più significative manifestazioni della storia culturale della Provincia di Foggia: l’omaggio che un folto gruppo di musicisti napoletani rende a Matteo Salvatore. Ci sono tra gli altri, Daniele Sepe, Beppe Barra, 99 Posse e soprattutto Eugenio Bennato, che presenta una struggente canzone dedicata a Foggia e al folksinger di Apricena (Foggia è chello ch’è passato e c’ancora adda venire / E tu pozza girare girare comme gira lu sole lu sole / e tu pozza sentire sentire o profumo  ‘e na rosa  d’ammore / è na musica meridionale ca nun siente a la televisione / è nu viento ca fa ‘nnammurare a chitarra ‘e Matteo Salvatore).
Mundi lancia l’idea di far realizzare un video clip dalla canzone, affinché diventi una sorta di inno della Capitanata, un biglietto da visita, una vetrina in musica. Ne parliamo ad Emmer, che ascoltato il brano, accetta con entusiasmo e rilancia la posta, non vuole limitarsi a un videoclip, ma propone qualcosa di più completo e complesso. Raccontare il rapporto profondo, l’amore che lega lo stesso Emmer, ed Eugenio Bennato, al capoluogo dauno: nasce così Foggia, non dirle mai addio, per la regia di Emmer e le musiche di Eugenio Bennato. 
Il documentario, direttamente prodotto dalla  Provincia, che si occupa anche dell’organizzazione, viene presentato a settembre 1997 in piazza XX settembre, di fronte ad una platea gremita ed entusiasta. Il successo è anche un premio per i tanti amici che hanno collaborato all’iniziativa, che si sono ritrovati attorno al progetto, che vi hanno collaborato, e che in qualche modo si rispecchiano nel lavoro di Emmer. La sensazione è di un processo che va prendendo corpo e vigore, che si nutre di sempre maggiori intrecci e relazioni che diventano rete e movimento. C’è una parte del pubblico che non vuole restare spettatrice e basta, che vuol diventare protagonista, che si aspetta che in fatto di cinema a Foggia possa nascere un qualche punto di riferimento stabile.
Il cinema diventa parte integrante delle politiche culturali della Provincia, fino a fare il suo ingresso ufficiale nella Sala del Tribunale di Palazzo Dogana che anni dopo ospiterà le proiezioni dei lungometraggi del Festival. L’esordio avviene l’11 febbraio 1999 con la proiezione dell’ultimo documentario di Luciano Emmer, Bella di Notte.
Quindi, ad aprile, il “numero zero” di cui si è già detto prima. Effettivamente, è proprio durante quella Giornata del Cinema Indipendente Italiano – che vede l’intervento  del produttore Gianluca Arcopinto e di Edoardo Winspeare, di cui viene presentata l’opera prima, Pizzicata). Se Winspeare è al suo primo lungometraggio, Arcopinto è un po’ il nume tutelare della cinema indipendente italiano. È anche uno dei maggiori organizzatori italiani di produzione. E reinveste i proventi di quest’attività nella produzione e nella distribuzione alternativa di film “giovani e pieni di energia”, come “Ospiti” di Matteo Garrone o “Un amore” di Gianluca Maria Tavarelli, che esce proprio lo stesso anno di Onda d’Urto (1999), interpretato dagli esordienti Fabrizio Gifuni e Lorenza Indovina (verrà presentato al pubblico foggiano al Falso Movimento). Arcopinto si proclama entusiasta all’idea di un festival per i film indipendenti da farsi a Foggia, ed è disponibile a dare una mano al progetto. L’idea di Arcopinto è in fondo speculare alla nostra: c’è tanto (potenziale) spazio per il cinema indipendente italiano, ma il problema è trovarglielo, offrirglielo, e di fronte ai problemi della distribuzione industriale, i festival rappresentano non solo una bella vetrina ( la sola possibile vetrina) ma anche una opportunità di distribuzione, seppure di nicchia.
È una bella iniezione di fiducia, quella che ci giunge da Arcopinto, uno stimolo ad andare avanti, anche se la disponibilità a darci una mano da parte del fondatore della Pablo Film resterà sempre  inespressa.
Rivelo un particolare poco noto della storia del Festival: la delibera istitutiva che la Giunta Provinciale adotterà da lì a qualche mese, designerà come direttore artistico proprio Gianluca Arcopinto, che sarà felicissimo della nomina, ma non troverà mai il tempo e la possibilità di assumere formalmente l’incarico.
Però adesso i tempi sono maturi: c’è ormai voglia di festival nel pubblico, c’è bisogno di festival per fare in modo che certi film possano essere sottratti alla invisibilità. 
Con Mauro ci decidiamo a rompere definitivamente gli indugi una sera, particolarmente esemplare delle contraddizioni del cinema italiano, che impediscono che certi film giungano al grande pubblico.
Il “certo film” è il Tempo dell’Amore di Giacomo Campiotti, presentato nella primavera del 2000 in via Campanile. Non si tratta di un film indipendente in senso stretto, ma è proprio questo a rendere ancora più esemplare il caso.
Quando gira Il Tempo dell’Amore, Campiotti viene ritenuto uno dei più promettenti e talentuosi giovani registi italiani. Ha alle spalle due film indipendenti, che hanno ricevuto larghi consensi dalla critica: Corsa di Primavera (1989) che aveva vinto il Grifone d’Oro a Giffoni, e Come Due Coccodrilli (1994).
Per realizzare il terzo film ha a disposizione una produzione multinazionale, attori internazionali ed un budget significativo. Ci sono tutte le premesse perché il successo ottenuto dalla critica venga adesso bissato anche al botteghino. Il film lo meriterebbe: Campiotti racconta tre delicate storie d’amore, collocate in tre contesti storici e geografici differenti, ma tenute assieme dal filo conduttore della potenza dell’amore. Qualcuno lo definisce per ampiezza di mezzi, perfino un semi-kolossal. Per me, è semplicemente un bel film, e punto: che però s’inceppa al momento dell’uscita nelle sale. Più precisamente, non esce mai così come dovrebbe.
La sera in cui viene presentato a Foggia, il dibattito è appassionato, intenso. Campiotti è presente solo in audio, bloccato a casa sua da una lombosciatalgia, c’è però Valentino Corvino, musicista foggiano co-arrangiatore delle musiche del film che esegue in sala al violino anche alcuni brani dalla colonna sonora. 
Una delle serate più belle e intense che abbiamo vissuto al Falso Movimento, che lascia però l’amaro in bocca: perché film così belli non possono essere visti dal grande pubblico? 
Anche per questo, soprattutto per questo ci vuole un festival del cinema indipendente. Qui a Foggia. Parafrasando il titolo del film di Emmer che aveva dato inizio a tutta la storia, alla lunga gestazione: basta, ci faccio un festival.
Il progetto di Festival, redatto da Mauro Palma e da chi scrive, viene adottato dalla Provincia di Foggia governata dalla seconda amministrazione presieduta da Antonio Pellegrino. È un’evoluzione scontata, visto il rapporto forte che era andato costruendosi tra l’ente di Palazzo Dogana ed il cinema negli anni precedenti. Il movimento nato attorno al cinema di via Campanile ed all’Aiace non ha la capacità organizzativa, tecnica e finanziaria necessaria per affrontare da solo un’impresa del genere. 
Perché di un’impresa si tratta. Organizzare un incontro con un autore, è già di per sé una fatica: invitarlo, provvedere all’ospitalità, distribuire gli inviti, occuparsi della comunicazione e della pubblicità. Figuriamoci quando si deve moltiplicare questa fatica per dieci, o per venti.
Il supporto organizzativo della manifestazione viene assicurato dalla stessa Provincia, attraverso l’Agenzia Provinciale della Cultura guidata da Valeria De Trino, e grazie al mio duplice ruolo di fondatore del Festival, e dirigente del Servizio Cultura e Spettacolo di Palazzo Dogana, i cui dipendenti sono mobilitati a ripetere l’esperienza positiva che avevamo già sperimentato positivamente nell’organizzazione della produzione di Foggia, non dirle mai addio.
Il Festival di Foggia è una della rarissime manifestazioni cinematografiche interamente promosse da una pubblica amministrazione. Il che può rappresentare un’anomalia, e sotto molti aspetti lo è: spesso la pubblica amministrazione non ha la necessaria flessibilità organizzativa, deve fare i conti con tempi e orari di servizio, che sono incompatibili con gli orari dello spettacolo.
Si è parlato nel corso degli anni della possibilità di forme organizzative diverse: dalla creazione di una istituzione autonoma, a quella di una fondazione di partecipazione, e può darsi che  prima o poi occorra sperimentare un assetto organizzativo diverso, in grado di dare alla macchina festival maggior forza sotto il profilo delle partecipazioni istituzionali e maggiore snellezza sotto quello organizzativo.
Però vanno sottolineate due cose. La prima, di tutta evidenza, è che senza l’apporto finanziario ed organizzativo della Provincia di Foggia, il Festival non sarebbe mai nato. La seconda è che, a suo modo, il festival è già organizzato come una rete informale, che si giova abbondantemente dell’apporto di volontari sia esterni all’amministrazione, sia interni. Il miracolo Festival si è prodotto anche grazie ad amministratori che “fanno notte” (ricordo Valeria De Trino, che seguì tutte, ma proprio tutte le serate, fino all’ultimo minuto) e ai dipendenti che prestano volontariamente la propria opera oltre l’orario di lavoro. 
Ma torniamo a noi. Il progetto del Festival viene approvato dalla Giunta Provinciale con deliberazione n.724 del 29 agosto del 2001. La spesa prevista ed autorizzata ammonta a 36 milioni delle vecchie lire. Il carattere è assolutamente sperimentale. Alla direzione artistica viene designato Mauro Palma, che la manterrà per cinque anni.
Si ragiona e si riflette sul nome da dare al Festival. La delibera adottata dalla Giunta parla di Festival del Cinema Italiano. Il progetto originario parlava invece di Festival del Cinema Invisibile. Qualcuno fa rilevare che il termine “invisibile” affibbierebbe un marchio di origine negativa ai film, e potrebbe far offendere gli autori. Alla fine si opta per un’intitolazione più tecnica, ma anche più rispettosa e coerente con la genesi della manifestazione, con il lungo processo che l’aveva portata a maturazione: Festival del Cinema Indipendente.
E veramente indipendenti sono i primi cinque film invitati al concorso.
Non c’è il tempo per emanare un bando vero e proprio, se si vuol celebrare la prima edizione nel 2001 (e si deve farlo, per impedire che il finanziamento concesso dalla Provincia finisca tra i residui). Così il primo Festival del Cinema Indipendente di Foggia si tiene “ad invito”, coinvolgendo un po’ di quegli autori amici che negli anni precedenti avevano animato le serate al Falso Movimento, all’insegna del meglio che il cinema indipendente ha da offrire al pubblico.
I film in concorso sono soltanto cinque (“Le complici” di Emanuela Piovano, “La prima volta” di Massimo Martella, “Regina coeli” di Nico d’Alessandria, “20” di Marco Pozzi e “Albania Blues” di Nico Cirasola) ma questo consente di dare il massimo spazio agli autori, e comincia a disegnare una caratteristica che il Festival manterrà sempre: mettere i protagonisti del festival – autori, attori, produttori che accompagnano i film – a loro agio, consentendogli di confrontarsi con un pubblico più nutrito di quello che solitamente partecipa ai Festival. 
Ogni giorno di programmazione prevede incontri dell’autore con gli studenti, una conferenza stampa, l’incontro serale con il pubblico. Valeria De Trino tiene moltissimo al rapporto con le scuole, e promuove con straordinario scrupolo i matinée dedicati agli studenti, che si tengono presso il cinema Garibaldi e che registrano il tutto esaurito. 
Le proiezioni ufficiali si svolgono nella Sala del Tribunale di Palazzo Dogana: location quanto mai suggestiva, ma ovviamente inadeguata. Manca una cabina di proiezione, non è possibile insonorizzare il proiettore, il cui ronzio non è certamente un bel sentire per gli spettatori. Ma comunque si comincia. Alle ore 20 del 21 ottobre con Le Complici di Emanuela Piovano.
Non dimenticherò mai l’ansia e l’incertezza che hanno scandito quel pomeriggio, in attesa dell’ora ics. Ansia ed incertezza accentuate dal pessimismo manifestato dal Presidente Pellegrino, nell’apprendere che con Mauro Palma e Valerio De Trino avevamo deciso di far pagare il biglietto per la visione dei film. 
La nostra era stata una decisione inevitabile: se vuole ritagliarsi uno spazio, un festival  deve produrre borderò, ovvero spettatori paganti. Ma per il Presidente era una sfida troppo ardita: “Vedrete che stasera in sala ci saremo soltanto io e voi”.
Ma all’ora ics, la Sala del Tribunale era piena. Neanche una poltrona libera, e tutti paganti, grazie al cerbero che Mauro Palma aveva messo al botteghino. Non si faceva sfuggire proprio nessuno: un paio di giorni dopo costrinse a pagare il biglietto perfino l’assessore ai lavori pubblici, Vincenzo Tropea, che doveva attraversare semplicemente per recarsi alla seduta di giunta.
L’affluenza si mantenne elevata per tutte le giornate di proiezione dei film in concorso e di quelli fuori concorso  (La balia e Il principe di Homburg di Marco Bellocchio, il nuovo film di Luciano Emmer che fu anche presidente della giuria, Una lunga lunga lunga notte d’amore e L’amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci). 
Nel vecchio Teatro del Fuoco (non ancora ristrutturato) va in scena la sezione riservata al cinema digitale. La stampa locale riserva una straordinaria attenzione alla manifestazione, che già dalla sua prima edizione conquista il record di quantità e qualità di rassegna stampa prodotta.
Si arriva così alla serata finale, con la conduzione di Virginia Barret e l’accompagnamento musicale dell’orchestra della Fondazione Giordano. Si apre in un’atmosfera magica e sensuale, con un omaggio alla Marlene Dietrich di Angelo Azzurro. Poi si comincia con le premiazioni. 
Fin da allora, uno degli impegni più improbi e nello stesso tempo divertenti che attendono ogni anno il comitato organizzatore, è quello di tenere segreti i verbali della giuria, difendendoli dalle possibili indiscrezioni della stampa, per non guastare la suspense. Soprattutto in quella occasione ci riuscimmo perfettamente, e prima della consegna dell’ultimo premio, il più importante, al miglior film, si verificò una curiosa situazione che contribuì a far crescere in modo esponenziale la tensione e fece di quella edizione sperimentale un vero festivl.
Ma procediamo per ordine. Virginia comincia a chiamare i premiati ad uno ad uno. Il premio al miglior cortometraggio va a L’odore del Freddo di Massimo Esposito, in collaborazione con Giuseppe e Vincenzo Palumbo, una bella opera girata da un regista foggiano e prodotta da un’azienda di Cerignola. Quindi, il Premio alla Carriera assegnato dal comitato organizzatore a Nico Cirasola, regista e protagonista del film Albania Blues. Un omaggio doveroso per uno dei più coraggiosi e veramente indipendenti cineasti pugliesi, che da allora si legherà al Festival con un profondo (e ricambiato) rapporto di amicizia.
Il premio della stampa (che viene attribuito sulla scorta delle preferenze espresse dai giornalisti accreditati) viene attribuito a Regina Coeli di Nico D’Alessandria. Quindi si passa ai premi conferiti dalla giuria ufficiale: Massimo Martella viene premiato per la sceneggiatura de La Prima Volta, Anita Caprioli e Cecilia Dazzi sono premiate ex aequo, quali migliori interpreti, per il film 20 di Marco Pozzi. 
Il premio della giuria popolare ha un significato molto particolare, ed è particolarmente caratterizzante per il festival di Foggia. Innanzitutto perché è intitolato a quell’indimenticabile uomo di cinema, pioniere e padre indiscusso della cultura cinematografica foggiana che è stato Giuseppe Normanno. A lui debbo non soltanto un diploma in linguaggio cinematografico ai tempi del cinecircolo Santa Chiara, ma tutta la passione per il cinema. Se non ci fosse stato a Foggia un personaggio come Peppino Normanno non ci sarebbe stato neanche il festival, perché non ci sarebbe stato il pubblico propenso a vedere un certo tipo di opere, e dunque la scelta di intitolare al filosofo foggiano il premio del pubblico è sacrosanta. 
Nelle prime edizioni votavano tutti gli spettatori, depositando le loro preferenze in un’urna dopo ciascuna proiezione. Successivamente questo meccanismo verrà sostituito dal voto espresso da una giuria popolare selezionata dal comitato organizzatore sulla base di candidature spontanee: ma quel che conta è che sia comunque il pubblico ad assegnare un premio, a conferma di quel che è forse l’obiettivo più vero del Festival: dimostrare che il pubblico, quando ha modo di vederli, apprezza i film indipendenti tanto quanto i film “normali”.
Sono circa le 23 del 28 ottobre 2001, quando le telecamere di Teleradioerre indugiano sui volti degli autori seduti nella prima fila delle poltrone della Sala del Tribunale. Tutti quanti – ecco l’episodio che fa crescere improvvisamente l’aspettativa, l’emozione, la suspense – sono già stati chiamati una volta sul palco, hanno già ritirato un premio, e sono contenti di poter tornare a casa con una delle belle statuette forgiate per l’occasione da Claudio Grenzi. 
Improvvisamente si rendono conto di essere in corsa ancora per il premio più importante quello al miglior film. La sala precipita in un silenzio inverosimile, carico di aspettativa.
Io sapevo chi aveva vinto. Ma lo stesso è stata per me una delle emozioni più belle che il festival mi abbia mai dato, vedere le braccia alzate al cielo come un calciatore che abbia appena segnato, la gioia e la commozione di Nico D’Alessandria quando il presidente Pellegrino dette lettura che il premio per il miglior film era toccato a lui.
Mai premio è stato tanto meritato, perché Nico D’Alessandria (che soltanto qualche mese dopo sarebbe stato stroncato da una malattia fulminante) è stato il più rappresentativo autore indipendente italiano degli anni Ottanta. 
Regina Coeli  è il film che amo di più tra quelli presentati al festival, perché è il più esemplare del modo di raccontare storie e di esplorare territori nuovi da parte del cinema d’autore italiano. Il film racconta una vicenda piccola e delicata: l’amore tra persone di generazioni diverse, un carcerato in regime di semilibertà e la matura assistente sociale dell’istituto di pena, interpretata da una straordinaria Magali Noël). Quando si tratta di scegliere tra sentimento e libertà, il ragazzo preferisce la seconda, ed evade. Non c’è una morale che l’autore voglia additare: ma solo vite, e disperazioni, e solitudini che riesce mirabilmente a raccontare.
Sono le storie predilette dal cinema che amo: storia di ultimi, diversi. Raccontate senza furberie e senza ammiccamenti, senza lieto fine. Anche se una delle caratteristiche più belle di Nico sta proprio nella sua capacità di creare finali sospesi leggibili in modi diversi.
Quella cerimonia finale, quel premio conferito a Regina Coeli resteranno per sempre nella storia del Festival del Cinema Indipendente di Foggia non soltanto perché concludono l’edizione inaugurale, ma perché sono assolutamente emblematiche di quel che è il cinema indipendente italiano, di quel che può essere.
Facebook Comments

Hits: 66

Author: Geppe Inserra

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *