I 190 anni del Teatro Giordano (di Enzo Ficarelli)

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Ringrazio molto Enzo Ficarelli, memoria storica della città, e testimone oculare di una Foggia bella e purtroppo andata, per questa preziosa storia del Teatro Comunale Giordano che qualche giorno fa ha festeggiato il suo 190° compleanno.
Ficarelli racconta i quasi due secoli di vita del teatro con passione ed ammirevole capacità di sintesi dimostrando come esso sia stato parte della vita cittadina, e che ne abbia in un certo senso scandito il passaggio da grande paese a città metropolitana. (g.i.)

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Il 10 maggio 1828 fu aperto al pubblico con la rappresentazione del melodramma “La sposa felice”, opera del catanese G.Pacini, il Real Teatro Ferdinando, nome che con l’unità d’Italia fu cambiato in “Teatro Dauno” e infine nel 1928, in occasione del centenario dalla sua inaugurazione,  in “Teatro Giordano”.
Era il Teatro più antico del Regno delle Due Sicilie dopo il San Carlo di Napoli.
Per la sua realizzazione furono elaboratori due progetti, nel 1818 quello di Giuliano de Fazio che prevedeva la costruzione dove è tuttora,  l’altro di Luigi Oberty che lo voleva in prossimità del palazzo Scillitani. Ed è proprio in questo sito che iniziarono i lavori subito interrotti per essere ripresi nell’attuale piazza.
La struttura era dotata di un porticato sorretto da sei colonne doriche, tre finestroni e un timpano al centro del quale  faceva e fa bella mostra lo stemma cittadino.
Nel mese di aprile  del 1818 si procedette  all’assegnazione dei palchi mediante il ” Bussolo “, un’assegnazione “mista”: in parte a sorte e in parte al miglior offerente.

Era un’operazione che dava diritto a entrare in possesso di un palco a pagamento per 10 o più anni con la possibilità di ammobiliarlo  e abbellirlo a proprio gusto e frequentarlo come un piccolo salotto.
Il palco più ambito, come riferisce lo storico Antonio Vitulli nella sua preziosa Storia dei teatri di Foggia XVII e XVIII secolo, era quello che oggi reca il numero 8 della seconda fila  e cioè  quello alla destra del Palco Reale, il palco di maggior prestigio per il possesso del quale si scatenava una vera battaglia e bisognava ottenerlo a suon di quattrini perché quel palco rappresentava  lo status symbol  della raggiunta potenza politica,  economica  e sociale.
Dal 1828 al 1835 appartenne ai Marchesi Celentano, poi ai Marchesi Di Rose, e successivamente ai Buonfiglio, ai De Nisi, ai della Rocca e agli Antonelli.
Nel 1830 un poeta foggiano,  Raffaele Rio, in un poemetto eroico-comico descrisse il Teatro definendolo maestoso e bello con il vestibolo  pieno di amanti…:

“Chi ognuno aspetta la sua Dulcinea,
Chi si toglieva e si metteva i guanti,
Chi la cravatta e il busto si stringea,
Chi il crine con le dita  si arruffava,
e specchiandosi all’ombra si attillava…

Ma quando apparvero nel 1836 profonde incrinature su alcune colonne con il pericolo di crollo del cornicione,  si intervenne drasticamente con la sostituzione dei finestroni in balconi e con l’eliminazione delle sei colonne che furono inglobate, sepolte, in un porticato con tre fornici.
Il 21 aprile 1837 il teatro riaprì con la nuova facciata i cui tratti richiamano non poco il portico della Scala realizzato da Giuseppe Piermarini.
Nella stagione 1843/1844 la Compagnia Stabile del San Carlino, per non rimanere inattiva a causa dei lavori di restauro al proprio Teatro di Napoli, accettò  un contratto a Foggia  per trenta rappresentazioni con un repertorio di altissimo  livello per un pubblico dal palato fine.
Piace riportare una sintesi di ciò che scrive nel 1845  l’Abate Pier Paolo Parzanese,  docente di teologia,  eloquenza e grammatica.

“È un teatro magnifico. Un bel porticato ne ornava la facciata ma poiché la fabbrica minacciava di fondersi alle colonne si sostituiscono i fornici i quali se hanno provveduto al bisogno hanno pure guastato quella bella architettura di prima.
I foggiani sono persone di natura piena di armonia e mente capacissima di amare il bello.
 Venite a Foggia e udirete ragazzacci e plebe canticchiarvi per le strade romanze e ariette con passione e melodia e se vi piacesse udireste un omaccio basso  e tarchiato  che senza ragione di lettere e di musica ha domato il suo mandolino che quando lo tocca vi rapisce.”

Dal 1829 al 1841, il ridotto venne arricchito con 4 statue in marmo, ora sistemate nella sala Fedora. Raffigurano i regnanti Francesco I  e Ferdinando II, con le rispettive seconde mogli Maria Isabella e Maria Teresa.
La  statua della regina Isabella è opera dello scultore carrarese Giovanni Tacca, mentre le altre tre sono opere dello scultore di ben altro livello, Tito Angelini.
Per il trasporto della statua di Ferdinando II da Napoli a Foggia fu incaricato, per una spesa di 142 ducati, il trainiere  foggiano Giovanni Ricci che dovette costruire un apposito carro e impegnare molti muli specie nella salita di Dentecane.
A Foggia, la caduta del regime borbonico nel 1860 avvenne in maniera tranquilla.
Il Teatro non poteva però continuare a chiamarsi Real Ferdinando, sovrano destituito dai Savoia, e  in attesa di una decisione mai  adottata in quegli anni verrà chiamato con il  provvisorio nome di Teatro Dauno.
Con l’Unità d’Italia, il Teatro perde prestigio e vedrà decadere i suoi spettacoli a un livello scadente.
La città di Foggia che aveva avuto la secolare dipendenza da Napoli  perde la sua capitale, punto di costante riferimento  storico, economico e amministrativo.
Perde la metropoli con la quale amava identificarsi nella lingua, nella cultura e nella frequentazione  del suo ceto nobiliare e borghese  e, conseguentemente, anche il tono e la qualità della vita scadono.
 Perde in maniera rapida e immediata quel primato, quel ruolo particolarissimo di cui godeva e  non vedrà più  sovrani in visita con quella frequenza di un tempo e i Prefetti non saranno più all’altezza di “Intonti” o ” Santangelo”  perché si  dimostreranno tutti  mediocri figure di burocrati .
Tale caduta colpì ovviamente anche la vita teatrale, soprattutto perché i piemontesi ritennero che il teatro doveva gestirsi in maniera autonoma ed  essere autosufficiente; di conseguenza i repertori scesero a livelli molto bassi.
In  data 23 agosto 1928 in occasione del Centenario dell’inaugurazione , su delibera della civica amministrazione, il Teatro Dauno cambierà nome e verrà intitolato al grande compositore foggiano Umberto Giordano, ancora vivente.
Dalla fine del secondo conflitto mondiale e fino agli anni ’50 il Teatro, che era stato vanto e orgoglio di una raggiunta dignità cittadina, subisce il peggior periodo della sua storia fino a toccare, con un progressivo decadimento, il fondo perchè viene utilizzato come cinema di infimo ordine,  con spettacoli scadenti e di pessimo livello.
Alla metà degli anni sessanta e precisamente il 29 aprile del 1966, il Presidente del Consiglio Aldo Moro inaugura il Giordano che a seguito di lavori restauro torna all’antico splendore e per di più nella disponibilità del Comune dopo il lungo e degradante periodo di gestione privata.
Rinasce così a nuova vita e torna ad ospitare artisti come Anna Magnani, Salvo Randone, Nino Taranto, Walter Chiari, Paolo Panelli, Gino Bramieri, Raf Vallone, Giorgio Albertazzi,  Anna Prooclemer, la Orchestra Sinfonica Rai in  più stagioni, la compagnia dei fratelli De Filippo , Virginia Zeani chiamata dai fans  “l’Assoluta”,  in un’epoca in cui Maria Callas era ” la Divina” e Renata  Tebaldi “l’Angelo”.
Il 10 dicembre 2016, trascorsi oltre 8 anni di inattività, dopo lunghi travagliati e radicali lavori di restauro,  il Teatro  ha riaperto finalmente le porte anche se oggi  l’esterno e l’interno della sua costruzione conservano nulla della maestosa semplicità neoclassica originaria.
A inaugurarlo è stata la magia della musica dell’orchestra giovanile di Luigi Cherubini diretta dal maestro Riccardo Muti.
Enzo Ficarelli


[In alto, antica fotografia del Teatro Dauno, colorizzata attraverso la tecnica “Neural Network-based Automatic Image Colorization” di Satoshi Iizuka, Edgar Simo-Serra e Hiroshi Ishikawa. Sotto la stessa immagine in bianco e nero].

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Author: Geppe Inserra

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