Gli amici e i lettori di Lettere Meridiane conoscono già Tony Vakka, architetto foggiano che vive a Londra, per la sua struggente poesia Tu Foggia, eterna signora di pianura, pubblicata dal blog anche nella preziosa interpretazione di Gino Caiafa.
Autore poliedrico che alterna versi e prosa, Tony torna sul luogo del delitto – Foggia e la nostalgia per la città di una volta, che ancora sopravvive nel cuore e nel ricordo di chi l’ha vissuta. In Nonno, Tony intreccia i suoi personali ricordi di adolescente con quelli del nonno Carmelo. Quel che ne viene fuori è un impareggiabile affresco, tra stupore, nostalgia e ansia di futuro ma anche una toccante documentazione della vita “terrazzana”. Un autentico Novecento Foggiano che Tony mi ha fatto trovare – graditissima sorpresa – in posta elettronica, una mattina di qualche settimana fa. Senza commenti né richieste di pubblicazione.
Non so dirvi se si tratti di un racconto già concluso o, come Tony predilige, di una “demo”, ovvero dell’incipit di una narrazione più lunga e complessa. So che è un racconto molto bello, che mi ha conquistato, e che mi piace far leggere ad amici e lettori di Lettere Meridiane. Sono certo che apprezzeranno. Se volete sapere qualcosa di più di Tony, vi consiglio un salto nel suo blog, in progress. Buona lettura. (g.i.)
Carmelo era il più grande di cinque fratelli e tre sorelle. Matteo suo padre era originario di Cerignola e morì in seguito di tumore ancora prima di raggiungere l’età matura.
Abitavano alla fine di via Lucera, al primo piano di una di quelle case fatte costruire da Mussolini, la penultima per l’esattezza, a cui si accedeva dopo una lunga rampa di scalini.
Nell’orto sottostante avevano avuto in passato delle pecore o almeno così Alfredino aveva appreso, prestando attenzione alle conversazioni degli adulti.
Degli otto fratelli e sorelle, quattro avevano i capelli rossi e gli altri quattro erano mori.
Alfredino non sapeva abbastanza, ma era molto attento ai discorsi dei grandi e non ne perdeva un dettaglio, poi metteva tutto insieme come le tessere di un puzzle.
Suo nonno era alto e bello, aveva i capelli rossi e e la pelle bianchissima, repellente al sole, un paio di baffi come Domenico Modugno che con il tempo divennero baffoni alla re Umberto I di Savoia. Beveva ed era alcolizzato, ma per Alfredino era un secondo padre.
Con lui andava a caccia di allodole quando era la stagione. Suo nonno usava varie tecniche di caccia e lui ne era affascinato. A volte utilizzavano una civetta catturata ancor giovane, tenuta in una gabbia ed a cui venivano dati da mangiare piccoli passeri. Veniva legata su una canna al centro del campo e, con una corda, veniva agitata a far sì che aprisse e chiudesse le ali. Quando questo non era possibile si usava il metodo degli specchi e di uccelli di plastica. Ci si nascondeva in una postazione controsole e si aspettava. Poi si usavano anche due tipi di richiami.
Alfredino non riusciva a spiegarsi come questi metodi riuscissero a funzionare. Suo nonno portava con sè una bottiglia piena di vino fatto in casa che andava a mano a mano svuotandosi e che era inversamente proporzionale alle sue forze.
A volte con la calura si appisolava sotto un albero.
Era il momento in cui lui si annoiava a morte e rimpiangeva di non essere andato al seguito di suo zio Matteo, di gran lunga più sveglio e scaltro. Un’avventura, al suo seguito, molto più entusiasmante.
Spesso il bottino era scarso e suo nonno ripiegava su una minestra di cicorie ed erbe selvatiche da portare a casa per non far ritorno a mani vuote.
Suo zio Matteo, invece, non tradiva mai le sue aspettative, anche se a volte non sempre si poteva andare a caccia di uccelli: lo vietava la legge in certi periodi dell’anno.
Una volta prese un’aquila così grande che a stento entrava nel cofano della macchina. Aveva un’apertura alare incredibile ed era bellissima.
Il nonno era contrariato, ma era troppo tardi per i pentimenti.
Spesso la cacciagione veniva venduta a mazzi in un posto in Piazza Sant’Eligio, il mazzo consisteva in quattro uccelli legati tra loro.
Il nonno gli spiegava che erano diretti al Nord, dove li mangiavano con la polenta.
I pezzi di pregio erano destinati all’imbalsamazione. Erano quelli che più affascinavano Alfredino perché i più belli. Scrutarli da vicino nei dettagli era una rarità e aiutava a soddisfare le sue curiosità. Li studiava nei particolari e rimaneva senza parole di fronte alla bellezza e perfezione di madre natura.
I volatili lo affascinavano perché erano sfuggenti.
Aveva imparato anche a riconoscerli quando erano in volo.
Nonno Carmelo era un sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale.
Era stato costretto come tutti i giovanissimi a far parte della Gioventù Fascista ed a frequentare i campi dove facevano vari tipi di sport ed altre attività. Alfredino lo ricordava perché, aprendo una vecchia scatola di latta aveva curiosato tra le piccole fotografie di famiglia in bianco e nero, alcune deteriorate ed ingiallite. Foto di gruppo sotto le armi vicino ad un cannone: suo nonno aveva servito negli Alpini ed era puntatore di cannone, ne era sicuro perché lo provava il tipico cappello con la piuma.
Alcune erano state scattate in un ospedale da campo, per via di una polmonite, ma non ebbe mai la pensione di guerra perché l’esistenza di quell’ospedale non fu mai provata, nemmeno il luogo preciso.
In altre lo si vedeva con l’elmetto ed una barba da eremita che lui asseriva essere piena di pidocchi durante la prigionia.
Carmelo non parlava tanto volentieri della guerra ed aveva tutte le ragioni del mondo. Suo padre aveva tentato di tutto per non farlo partire per il fronte. Gli aveva procurato una ragazza seria da sposare, piccoletta di statura ma con degli occhi azzurri, di quelli che segnano un’esistenza. Lei usava affacciarsi al balcone al mattino per appendere una gabbia con un canarino alla luce del sole, per poi ritirarla all’imbrunire. Lavorava come capo stiratrice nella servitù di uno di quei palazzi nobiliari di via Arpi, poi adibito a banca. Era l’unico momento in cui Rosaria usciva all’aria aperta, per il resto era sempre in casa.
A Matteo padre non era certo passata inosservata quella graziosa bambolina e in se aveva già deciso di procurarle un marito, cioè suo figlio Carmelo. Il figliolo avrebbe così messo la testa a posto e, creatosi una famiglia, avrebbe potuto forse evitare di partire per il fronte, perché già da tempo soffiavano venti di guerra.
Ma, anche quando tutto fu compiuto, e la prima figlia Mariella venne al mondo, nel Luglio del 1940, Carmelo era già partito per il fronte. Aveva 19 anni, la guerra era scoppiata il 1° Settembre del 1939.
Lasciò sua moglie Rosaria a casa di sua mamma, Maria, in via Lucera, con una bambina appena nata da crescere ed altri suoi fratelli minori da sfamare.
Così per guadagnare qualche spicciolo usavano lavare e stirare le divise ai militari ed in seguito anche agli Americani. Far fronte all’intera famiglia da sole non sarà davvero stato facile. Rosaria era passata dall’accudire la numerosa famigliola di fratelli e sorelle al paese, essendo lei la primogenita, a quella acquisita con il matrimonio.
Furono degli anni durissimi per tutti. Soprattutto quando la guerra stessa si abbatté come un macigno sulla città.
Foggia fu pesantemente bombardata dagli alleati, essendo un punto strategico sia militare che aereo e ferroviario. La città subì dei danni irreversibili, i morti furono migliaia e così le famiglie spezzate. Un disastro senza precedenti. Gli edifici storici furono gravemente danneggiati o distrutti per sempre. La stazione ferroviaria ed il colonnato della Villa Comunale, furono l’emblema, ma la distruzione risparmiò ben poco.
Rosaria riparò in provincia da alcuni parenti. Nel frattempo nacque un’altra bambina, risultato delle licenze di Carmelo che fu mandato prima al fronte in Albania, poi in Grecia ed infine prese parte alla disastrosa campagna di Russia. Sul quel campo di battaglia migliaia di soldati, male equipaggiati, morirono di freddo e di stenti.
Lina, la secondogenita, morì qualche anno dopo all’età di soli quattro anni. Aveva folti capelli biondi raccolti in due trecce e due occhioni azzurri.
Non lasciò nemmeno una foto che la potesse ricordare. Carmelo nei momenti di sconforto dovuti all’alcol raccontava con parole commosse e impastate le fotografie di una guerra senza senso e di cui nessuno mai avrebbe immaginato la crudeltà.
Si emozionava al ricordo dei compagni d’arme morti al suo fianco ed, ancora si chiedeva perché non fosse toccato a lui. Lo pensava continuamente, sbattendo i pugni sul tavolo, mentre sul giradischi andavano popolari canzoni napoletane.
Ricordava il suono dei proiettili passargli accanto ed il deflagrare delle bombe. Quell’orrore lo aveva segnato per sempre e gli aveva portato via gli anni migliori della sua gioventù, catapultandolo in una realtà fatta di brutture e torture indicibili ad un bambino.
‘La vita è una carogna’, ripeteva.
Ma Alfredino sapeva molto di più di quello che gli adulti pensassero. Ascoltava sempre con attenzione i discorsi dei grandi, specialmente nelle serate estive, fingendosi distratto, quando per sottrarsi alla calura estiva ci si sedeva la sera davanti l’uscio di casa a chiacchierare e a scambiarsi opinioni. Come quella volta che nel suo pigiama di cotone azzurro, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla luna, perché in televisione sul primo canale avevano trasmesso l’atterraggio lunare dell’Apollo 11. Il primo uomo sulla luna.
Sembrava che una nuova epoca avesse avuto inizio. I discorsi sulla guerra sembravano più lontani e le speranze per un futuro migliore a portata di mano: era il 20 Luglio 1969. In una calda serata pugliese, fuori all’uscio di casa gli sguardi di Alfredino erano rivolti a quel satellite luminoso fra le stelle. Neil Armstrong stava per toccare, per la prima volta, il polveroso suolo lunare. Era l’evento del secolo e lui si sentiva parte.
Da lì a qualche anno, un nuovo mondo si sarebbe dischiuso per Alfredino…
Lui sapeva che suo nonno fu fatto prigioniero in Russia. Lì trascorse lunghi anni di prigionia in cui aveva patito di tutto, fame ed umiliazioni, freddo ed isolamento. In cella mangiavano bucce di patate e bevevano pipì per sopravvivere. L’igiene era assente. Erano diventati pelle ed ossa, mentre i pidocchi prendevano il sopravvento.
Aveva perduto due dita del piede destro per congelamento e di questo aveva le prova perché l’aveva notato, rabbrividendo, quando sua nonna gli lavava i piedi con la pietra turchina in una bacinella bianca di metallo laccato dall’orlo blue per combatterne il cattivo odore. Sua nonna lo accudiva di continuo e lo tirava a nuovo, mentre suo figlio minore, Enzo, gli tagliava i capelli, lo radeva e gli spuntava i baffi. Ne usciva come nuovo. Suo nonno era il capo famiglia e meritava rispetto.
Carmelo fumava come un turco, le Alfa senza filtro, dal pacchetto rosso e morbido e puntualmente mandava Alfredino a comprargliene uno al tabacchino nel vicino rione Candelaro. Per arrivarci doveva attraversare una strada molto trafficata e pericolosa, e suo padre Lorenzo preoccupato gli vietava di andarci quando il nonno, brillo, glielo avesse chiesto. Ma Alfredino amava suo nonno che sotto l’effetto dell’alcol gli permetteva di comprarsi un cioccolatino o le caramelle come ricompensa.
Carmelo non sarebbe stato se stesso se non avesse avuto con sé sigarette ed un fiasco di vino di cui, puntualmente, finiva le scorte prima del tempo per poi chiederne ancora a suo genero Lorenzo o mandare Alfredino alla cantina di Vincenzo subito dopo l’edificio bianco, quello recintato, adibito ad asilo comunale.
Carmelo lavorava come spazzino e puliva un’area che andava da Porta Grande a dietro la chiesa di San Giovanni. Alfredino lo ricordava benissimo perché più di una volta fu incaricato da sua nonna Rosaria di portargli il pranzo. A volte lo trovava seduto all’ombra sugli scalini, per sfuggire alla calura estiva, a volte doveva cercarlo nel bar verso porta Manfredonia, mentre passava il suo tempo a bere con persone di sua conoscenza. Si faceva però promettere di non dire niente alla nonna e si giustificava, asserendo, che lo faceva solo quando tutta la zona a lui assegnata era ormai pulita. ‘Prima il dovere, poi il piacere’, usava ripetere.
Ed era vero, perché tutta l’area era pulita ed ordinata.
Carmelo portava spesso Alfredino con sé nelle sue uscite, sapeva che il nipotino amava il teatrino dei pupi siciliani vicino Porta Grande e, da quella prima volta in poi, se lo portava insieme sempre più spesso, per farlo felice.
Alfredino imparò la storia dei paladini di Francia, il valore di Orlando e la spregiudicatezza sul campo di battaglia di Rinaldo, combattevano contro i Mori di Spagna. L’amore del primo per Angelica e l’odiato traditore, Gano di Magonza, bardato in nero, la Regina Damarovenza, che combatteva con un enorme martello e Averroe’. Pianse durante la disfatta di Roncisvalle dopo che gran parte dei suoi eroi perirono in un’imboscata, fra le gole dei Pirenei. Suo nonno gli comprava i ceci arrostisti e le castagne secche da un tipo avanti con gli anni, dalla faccia sofferta e senza denti, di quelli su cui la vita aveva infierito pesantemente. Fumava la pipa e suo nonno lo chiamava ‘Pippaiuolo’. Tutti avevano un soprannome o un nomignolo, anche lui.
Dopo lo spettacolo, suo nonno faceva il giro delle cantine dove chiedeva un bicchiere di vino per se stesso ed uno di spuma d’arancia per il piccolo.
Il bar di Piazza del Lago, ‘le tre fiammelle’, quella in via Arpi vicino alla Drogheria Giuva, dove la nonna comprava tutto ciò che servisse per i dolci ed i liquori da preparare a Natale.
Alfredino amava la sensazione delle bollicine risarirgli il naso. Leggeva: ‘Spuma d’arancia Appia’, ed era felice.
A volte lo portava alla villa comunale, gli comprava dei semi di granturco in un piccolo cono di carta di giornale per dar da mangiare ai piccioni che lo attorniavano increduli beccando i semi direttamente dal palmo della sua piccola mano.
Con i suoi calzoncini corti, i suoi capelli a spazzola, Alfredino era felice ed al candore di quella vista lo era anche nonno Carmelo.
Alfredino era stato male da piccolo. Era delicato. Aveva iniziato con le convulsioni da piccolissimo per poi finire qualche anno dopo ancora in ospedale per una sospetta meningite. Era magrissimo e le tentavano tutte per farlo irrobustire. Sua nonna Rosaria era l’infermiera della casa. Quando il medico di famiglia gli prescrisse un ciclo di iniezioni di calcio, non si accorsero che il farmacista gli consegnò una scatola di medicinale scaduto. Quando fu iniettato, andò in suppurazione e l’ematoma andò subito operato e ripulito dopo un lungo drenaggio ed infine alcuni punti di sutura.
Un’altra volta, poi, andò a farsi un giro in bicicletta con Ernesto, il figlio di Ulderico, il salumiere, che gli chiese di montare davanti sul telaio. Spericolati, dopo un po’ di gioia, arrivarono i dolori: una frenata improvvisa di una Fiat 850 bianca davanti provocò lo schianto. Alfredino andò a sbattere con la faccia contro il vetro posteriore dell’auto e si ruppe il setto nasale. Una signora lì vicino che aveva assistito alla scena, lo soccorse, lo portò in casa e con un panno e del ghiaccio, lo aiutò ad asciugare il sangue che gli colava fino a petto, impregnando la magliettina.
Quando tornò dalla mamma, ella, preoccupata, lo sgridò, pensando a quando lo avrebbe visto suo padre Lorenzo. Sarebbero stati dolori.
Mariella mentì, disse a Lorenzo che il figliolo era caduto scivolando e battendo sulla soglia di marmo della porta d’ingresso di casa della zia Maria.
Carmelo sapeva che Alfredino era un bambino delicato ma vispo e curioso, impaziente di conoscere ed apprendere.
A volte doveva dirgli di no quando andavano a caccia di mallardi e capoverdi per terreni paludosi, spiegandogli che la zona dove erano diretti era infestata da serpenti ed era per questo che dovevano indossare stivali alti e di gomma.
Avrebbero portato con sé anche il cane da caccia.
Ad Alfredino i serpenti facevano ribrezzo e si rassegnava all’idea.
Andava quindi con gli altri ragazzacci del quartiere dietro il cimitero. Lì sistemavano i paletti delle fitte reti per uccelli che al loro rientro al tramonto venivano attirati in stormi più o meno numerosi, dopo avergli lanciato contro delle pietre, fischiando rumorosamente. Il leader spaventato abbassava il volo mentre gli altri lo seguivano in massa, rimanendo impigliati nella rete. All’imbrunire si passava a prelevare il bottino. Ai passeri comuni veniva schiacciata la testolina per non farli più sbattere nella rete, evitando così di poterla danneggiare. I cardellini, invece, venivano salvati per la loro bellezza e tenuti in gabbie di legno molto piccole per evitare che sbattessero da un lato all’altro, non essendo abituati alla prigionia. Venivano venduti al mercato per la delicatezza del loro canto. Il loro mascherino rosso che mettevano su da adulti gli esemplari maschi e le tipiche penne gialle sulle ali gli conferivano un aspetto esotico.
A volte durante ‘la puta verde’, cioè lo sfrondamento delle viti coltivate a tendone a primavera inoltrata, ci si imbatteva in qualche nido di cardellini, piccolissimo e grazioso. Era consuetudine installarlo in un gabbietta una volta schiuse le uova, cosicché i genitori potessero cibare i piccoli fino all’età adulta dall’esterno attraverso gli spazi delle barrette di metallo.Gli esemplari maschi erano quelli di pregio per via dei colori più vivaci distinguibili per la tipica maschera rossa, mentre le femmine, ritenute prive di valore, venivano liberate. Con questa tecnica si ottenevano cardellini più abituati a stare in gabbia.
Poi con un esemplare maschio ed un canarino femmina si ottenevano degli ibridi che si riteneva però fossero sterili.
Alfredino aveva appreso queste tecniche dalla strada, ma anche tramite il fratello di suo nonno, Vittorio, anche lui dai capelli rossi, che aveva casa piena di gabbie e volatili di ogni tipo, colori e specie diverse, canarini rossi, gialli, arancioni che nidificavano e facevano uova di continuo. Possedeva anche alcuni dal piumaggio arricciato di tipo Olandese. Per Alfredino quel posto era il paradiso e, muto, pendeva dalle parole dello zio.
Vittorio ne aveva regalato uno giallo a Mariella, il quale con il suo canto allietava le giornate a tutta la famiglia. Riconosceva tutti i suoi membri e se gli si avvicinava non aveva alcuna paura.
Lorenzo lo curava ed ogni mattina gli cambiava la carta di giornale del fondo ed a volte gli dava l’osso di seppia che lui sembrava apprezzasse, ma anche una cima di tubero di cicoria da tavola.
Un periodo Mariella andò in ospedale per una settimana o più per accertamenti ed il canarino, che tutti chiavavamo Ciccillo, smise all’improvviso di cantare fra lo stupore di tutti.
Riprese la sua melodia poi, appena Mariella tornò a casa, non smetteva più di cantare per la felicità.
Un giorno Carmelo andò a trovare sua sorella Assuntina che abitava al quartiere CEP e porto’ anche Alfredino sulla sua lambretta. Lo faceva mettere in piedi davanti. Era molto piccolo allora. Come tutti i bambini ad una certa ora si addormentò e suo nonno lo lasciò lì. Suo cognato Pasqualino lo avrebbe riportato a casa il giorno dopo.
Alfredino si svegliò di colpo nel pieno della notte, al buio, nel lettone fra gli zii di sua madre che conosceva bene, ma si sentiva perso ed a disagio in mezzo a loro. Cominciò a piangere e pianse per tutto il resto della notte. Finalmente giunse mattina e lo zio Pasqualino lo accompagnò con la sua vespa a casa dalla mamma.
Alfredino gli chiedeva sempre quando gli avrebbe portato una piccola papera con cui giocare. Pasqualino lo accontentava al momento per non deluderlo, ma solo a parole.
Così un bel giorno arrivarono una coppia di giovani tortorelle dal tipico collare e dal piumaggio immacolato e morbido che al tatto sapeva di velluto. Alfredino era al settimo cielo.
Le aveva sistemate in una gabbia nello stanzino annesso al posto macchina. Era tutto chiuso ed aveva una finestrella con una grata esterna ed in più schermata da una zanzariera. Lì erano al sicuro. Le settimane trascorsero velocemente, i due volatili raggiunsero l’età adulta. Avevano imparato a riconoscere Alfredino che per la maggior parte del tempo chiuso lì dentro le liberava parlandogli e sembrava lo ascoltassero.
Le toccava e le accarezzava ed era strafelice.
Ma quella situazione non poteva durare, gli escrementi dei due volatili erano dappertutto ed il cattivo odore era diventato insopportabile.
Così un bel giorno tornato da scuola trovò lo stanzino dei suoi giochi, ripulito, ordinato e disinfettato con porte e finestre spalancate.
Le tortorelle le avevavo date ad un conoscente che aveva in campagna una piccionaia che le avrebbe accolte in uno spazio libero più appropriato.
Ad Alfredino, ora, non restava altro che andare a caccia di farfalle al campo vicino all’OM, all’incrocio di Porta Lucera, metterle in un vaso di vetro per poi liberarle in casa fra le lamentele della mamma intenta a cucire per le sue clienti. Oppure andare a sottrarre le rose rampicanti dai giardini del rione dei Preti con i suoi amichetti.
Tony Vakka
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