Mariano Loiacono va in pensione. Ad maiora.

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Mariano Loiacono ha scritto la presentazione ai miei due libri. Io ho scritto la presentazione a diversi suoi libri e basta questo incrociarsi ed intrecciarsi di reciproche parole a dar conto di un’amicizia ormai pluridecennale, scandita da un comune viaggio alla ricerca della Verità.
Ho conosciuto Mariano all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Io ero un giovane collaboratore della redazione foggiana de La Gazzetta del Mezzogiorno, lui un giovane psichiatra che si occupava di droga al Centro di Medicina Sociale degli Ospedali Riuniti. Curare la tossicodipendenza, allora, significava stare in trincea. Ma mi colpì immediatamente la tesi del giovane baffuto psichiatra, che di lì a poco avrebbe dato alle stampe il suo primo libro, Droga, drogati, drogologi, gettando un sasso nell’acqua stagnante della medicina e della psichiatria ufficiale.
Loiacono non considerava la tossicodipendenza come il male in sé, ma piuttosto come il sintomo, la spia di un disagio assai più profondo, ramificato e diffuso. La sua tesi era che l’eroina mieteva le sue vittime tra i giovani più deboli, indifesi e sensibili, e tanto bastava a sovvertire il luogo comune che stigmatizzava i tossici, ritenendoli il male da estirpare, argomento di cronaca nera e non di inchiesta.
I lettori benpensanti del quotidiano regionale mugugnarono un bel po’ nel leggere la serie di articoli che dedicai al Centro e alle terapie che vi venivano praticate, e ci fu perfino qualche protesta. Ma il buon capo della redazione, Anacleto Lupo, comprese il potenziale innovativo di quell’approccio e consentì la pubblicazione.

Il bello è che la terapia di Mariano funzionava. L’idea di fondo è che il disagio che portava alla dipendenza scaturisse dall’inceppamento del processo di maturazione che inizialmente colpiva i giovani ma che di lì a poco avrebbe contagiato i gruppi, le istituzioni, la società, la specie umana. È stato buon profeta, Loiacono, che scriveva queste cose ben prima del Crollo del Muro di Berlino, di Tangentopoli, delle fine della Prima Repubblica e della crisi economica.
Al Centro, attraverso la pratica della comunità reale, Loiacono cercava – senza il ricorso a farmaci – di ricreare le condizioni dell’utero, in modo da consentire che la maturazione-gravidanza interrotta potesse arrivare al compimento.
Idee affascinanti, che ho tuttavia capito fino in fondo, soltanto quando ho smesso di ascoltarle e basta. Quando me le sono sentite attorno, addosso e infine dentro. 
Accadde sempre al Centro, che frequentavo saltuariamente, grazie anche all’amicizia con Giovanni Aquilino, comune amico troiano, fondatore de La Refola.
Era però una frequentazione – come dire – razionale. Avvertivo dei fastidi alla cervicale e Loiacono mi fece fare alcuni accertamenti, da cui emerse che avevo una sostanziosa carenza di ferro.
Con la sua aria sorniona, mi propose di fare la terapia, che consisteva in iniezioni endovenose da cavallo – lì al centro, così “avrai modo di immergerti un po’ di più nelle cose che facciamo qui.”
Da tempo il Centro non si occupava più di tossicodipendenza, perché nel frattempo erano sorte altre strutture, come il Cmas. Loiacono aveva preso ad occuparsi di alcoldipendenza, un problema assai più atavico e radicato della droga, in quanto non colpisce soltanto i giovani ma tutti: casalinghe, lavoratori, anziani. 
Accettai, e giorno dopo giorno, iniezione dopo iniezione, sentii che qualcosa cambiava in me, e non soltanto per quanto riguardava il tasso di ferro nel sangue. Mi sentivo meglio nelle mie relazioni con gli altri, stando fianco a fianco con gli alcolisti, ascoltandoli, scherzandovi insieme. Mi sentivo parte di quella comunità.
Un’altra caratteristica del lavoro di Loiacono è quella di rendere protagonisti i pazienti, che avevano costituito l’associazione Alla salute. Ebbi l’onore di dirigere il loro periodico, Formicamica, che ricordo con soddisfazione e con nostalgia, anzi con orgoglio, perché non era un bollettino e basta, non informava e basta, ma gli articoli, le storie che venivano raccontate erano scritte con il cuore, più che con la testa, essendo il frutto dei laboriosi processi di comunicazione che si intrecciavano nella “comunità reale.” 
Il tempo passa, e adesso anche per Mariano è giunto il momento di andare in pensione. Lascia un eredità difficile, da un lato perché uno come Loiacono è insostituibile, dall’altro perché oggi il Centro di Medicina Sociale è conosciuto in tutta Italia e non solo, grazie alle comunità che si sono sviluppate con il Metodo alla Salute, ma paradossalmente rappresenta la più evidente declinazione del detto che nessuno è profeta in patria. Non è stato metabolizzato come sarebbe stato il caso dall’azienda ospedaliera, dal territorio. Come si sa, c’è il rischio che con il pensionamento di Loiacono il Centro possa essere chiuso.
Sono comunque certo che – qualunque cosa Mariano faccia a partire da domani – il sogno che ha portato avanti in tutti questi anni continuerà e chissà che, libero dalle pastoie burocratiche, non metta ali ancora più salde per volare ancora più in alto.
Auguri, Mariano. Ad maiora. Per dirla con Obama, il bello deve ancora venire.
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Author: Geppe Inserra

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