Come lo si volti e come lo si giri, il Rapporto Svimez 2013 certifica l’incapacità della politica nazionale (ovvero dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni – Berlusconi, Monti, Letta- , ma anche dei partiti che li hanno sostenuti, con l’aggravante che due dei tre governi sono stati sorretti da grandi intese) di affrontare in modo organico il problema del divario tra il Sud e il resto del Paese.
La forbice non si chiude, ma anzi s’allarga più vistosamente. Il quadro disegnato dal Rapporto è da tregenda: “nel 2012 – vi si legge – il Pil è calato nel Mezzogiorno del 3,2%, oltre un punto percentuale in più del Centro-Nord, pure negativo (-2,1%). Per il quinto anno consecutivo, dal 2007, il tasso di crescita del PIL meridionale risulta negativo. Dal 2007 al 2012, il Pil del Mezzogiorno è crollato del 10%, quasi il doppio del Centro-Nord (-5,8%).”
E non è tutto: “In termini di Pil pro capite, il gap del Mezzogiorno nel 2012 ha ripreso a crescere, arrivando al livello del 57,4% del valore del Centro Nord. In valori assoluti, a livello nazionale, il Pil è stato di 25.713 euro, risultante dalla media tra i 30.073 euro del Centro-Nord e i 17.263 del Mezzogiorno.”
Notizie altrettanto negative giungono dal fronte dei consumi e degli investimenti che come denuncia la SVIMEZ hanno registrato una netta flessione: “I consumi finali interni nel 2012 sono crollati al Sud del -4,3%, oltre mezzo punto percentuale in più rispetto al Centro-Nord (-3,8%).”
Tutto ciò è conseguenza della crisi economica, che è stata particolarmente virulenta nel settore industriale con gravissime ripercussioni sui livelli occupazionali. La SVIMEZ evoca lo spettro della desertificazione industriale: “nel 2012 i posti di lavoro nel settore sono scesi al Sud del 2,7% contro il calo del – 1,8% del Centro-Nord. Dal 2009 al 2012 il comparto manifatturiero meridionale si è avviato verso una vera e propria débacle, perdendo quasi il 20% degli occupati, pari a 158.900 posti di lavoro, una percentuale superiore a quella del Centro-Nord (-13,6%, a fronte di 527.800 posti di lavoro persi).”
Non occorre essere un provetto statistico per rendersi conto che, se il divario non fosse cresciuto o se avesse cominciato a calare, se la flessione produttiva ed occupazionale del Mezzogiorno fosse stata più contenuta che nel resto del Paese a giovarsene non sarebbero state soltanto le regioni meridionali, ma tutta l’Italia. E, invece, sta proprio nella rimozione di questo dato inoppugnabile dalla coscienza politica e civile, la chiave di volta del possibile fallimento dell’intero sistema Italia.
La questione meridionale – che è questione strutturale del Paese, e non soltanto di una sua parte – è stata da tempo rimossa, tanto dall’agenda politica dei governi che si sono succeduti, quanto dal sentire comune, dalla cultura italiana. La solidarietà non può essere imposta per decreto o per legge: ma dovrebbe essere il valore fondante di una nazione. In Italia non è più così da tempo.
Intendiamoci, ha macroscopiche responsabilità anche la classe politica e dirigente meridionale, più brava a lamentarsi che non a tessere trame di futuro e di speranza. Bisognerebbe interrogarsi sul fallimento delle politiche comunitarie, che pure hanno riversato ingenti finanziamenti sulle regioni titolari dell’Obiettivo Convergenza. Se queste risorse fossero state spese con tempestiva ed efficienza dalla classe politica e dirigente meridionale, probabilmente il quadro non sarebbe così fosco.
Ma adesso siamo arrivati davvero alla frutta. Il Rapporto SVIMEZ si conclude con la sollecitazione di “una forte azione di policy che proceda attraverso azioni di emergenza anticiclica da un lato e di strategie di medio e lungo periodo dall’altro.” Non è forse un caso che gli autori del rapporto usino la parola inglese policy e non quella italiana politica.
In inglese policy sta per politica pubblica, regìa delle prospettive ed ha un significato del tutto diverso da quella della politica di governo della collettività (politics).
Per risollevare il Mezzogiorno occorre più policy, e meno politica.
Geppe Inserra
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mi verrebbe da dire più Politica e meno "intermediazione impropria"
Piero Barucci, che appunto per anni ha diretto lo SVIMEZ e che ha sicuramente contribuito a formare molti ricercatori di quell'istituto con questa espressione intende appunto il ruolo distorto di gran parte della politica meridionale.
il politico "fattivo" secondo l'accezione meridionale, intermedia tra l'impresa o il singolo e l'amministrazione.
tutto il sistema è completamente impostato per selezionare/formare questa categoria di personale politico.
l'idea che il politico debba essere un tantino visionario sia pur con giudizio, e che debba saper osare/prefigurare è fuori portata.
Nella migliore ipotesi, soprattutto a livello locale, il politico è una sorta di funzionario aggiunto. Supplisce allle deficienze della macchina amministrativa, introducendo un po' di pragmatismo dove regna la interpretazione formalistica della legge.
Il legislatore infatti si è sgolato, soprattutto nei primi anni novanta, per spiegare che anche l'azione della pa è improntata al principio di adeguatezza della forma alla sostanza, di libertà di forma e, correlativamente, per spiegare che la legge assume significato normativo solo quando incontra il caso concreto e che la mancanza di una norma puntuale per il problema da affrontare non può risolversi in inerzia.
ebbene il politico bravo arriva e con buon senso dice: questa cosa si fa, me ne assumo la responsabilità.
proprio in questi giorni ho letto un programma politico che risponde in pieno a questo stereotipo, diciamo così, positivo.
ma così si fa bene, ed è veramente tanto, ma non si va avanti.
sono ragionevolmente convinto che il Sud da solo non possa farcela.
al Sud manca la Politica.
manca cioè l'innovazione e il coraggio. manca il gusto della sfida.
c'è solo una consolazione.
la situazione è del tutto identica anche a livello nazionale 🙂
Fino a pochi hanni fa, puntualmente acquistavo i corposi rapporti, poi ho smesso, è uno sconforto … nel meridione, più che nel resto d'Italia, viviamo in un oceanico delirio d’impotenza. Manca la consapevolezza di essere individui con delle responsabilità e quindi, finalmente, con delle possibilità di cambiamento. Grazie Geppe.
Di questione meridionale non si parla più espressamente in politica anche se la questione è secolare. Le radici di questo fenomeno sono da collocarsi, probabilmente, al momento della nascita dello Stato unitario (e probabilmente anche un po' prima). Ma, invece, che puntare sui temi che tutti condividiamo (mancanza di policy, visione strategica, gap infrastrutturali ed emergenza criminalità), per cambiare prospettiva mi vorrei soffermare su un elemento diverso. Tra la prima e la seconda rivoluzione industriale ci fu un cambiamento di prospettiva a 360 gradi. I Paesi che nel corso della Prima rivoluzione industriale (carbone, ecc) si erano trovati più avanti, furono scavalcati da Paesi più "arretrati" (e uso il termine con virgolette perché parliamo di quelli che ancora oggi sono giganti dell'economia mondiale). Che cosa era successo? Questi Paesi più arretrati non avevanon avuto le difficoltà che avevano trovato gli altri a "riconvertire" strutture e infrastrutture. Industrie che da un giorno all'altro si ritrovarono obsolete. Semplifico per ragioni di spazio, ovviamente: quei Paesi che non avevano quelle zavorre si ritrovarono davanti in una nuova Rivoluzione industriale.
Arrivo al punto: se abbiamo aspettato oltre 20 anni per il raddoppio della Statale 16, non è il caso di aspettarne altrettanti per l'alta velocità, il porto di Manfredonia, la questione aeroportuale e quant'altro.
Puntiamo su settori emergenti: le energie alternative (eolico, fotovoltaico), sull'innovazione tecnologica. In una fase in cui tutta l'Italia è in crisi, il Mezzogiorno potrebbe rovesciare la prospettiva partendo da ciò che ancora non c'è.
Andiamo avanti e cerchiamo di precorrere i tempi: tanto continueremo ad avere un patrimonio infrastrutturale più vecchio e meno efficiente di quello del resto del Paese.
Condivido l'approccio di Enzo Pizzolo.
Occorre rovesciare la prospettiva.
Il sud e la provincia di Foggia devono lasciar perdere identità e lamentele e si devono lanciare sulle strade dell'innovazione.
Pensiamo a quanto moderno e innovativo fu Castel del Monte quando venne realizzato.
Bisogna osare.