Perché Renzi mi piace sempre meno

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Antonio e Cleopatra
Le opere dei grandi autori classici non parlano mai soltanto al pubblico contemporaneo. Si proiettano oltre il loro tempo. Sono in grado di trasmettere valori e cultura a ogni uomo, in ogni epoca.
In questi anni di crisi economica, ma anche politica e morale, sarebbe necessario rileggere William Shakespeare che ha speso tutta la sua opera a cantare la fine di un’epoca – il Medioevo – e l’avvento di tempi nuovi, scanditi dall’ascesa al potere della borghesia, che il grande poeta riteneva in grado di correggere gli errori, di sanare le piaghe lasciate dall’aristocrazia.
Per raccontare questa speranza, Shakespeare ricorre a un espediente drammaturgico preciso. Nelle sue maggiori tragedie. affida ad un personaggio giovane la rappresentazione del futuro, della speranza di tempi nuovi. 
In Amleto, è Fortebraccio che si fa carico di sgombrare dalla scena i cadaveri e “con rincrescimento abbraccia la sua buona sorte”, prendendosi la corona che gli spettava. Nel Re Lear questo ruolo spetta ad Edgar, che uccide il fratello degenere Edmund, raccogliendo la pesante eredità lasciatagli dal padre Lear, e dai suoi errori. Tragedia dopo tragedia, però, la speranza di Shakespeare verso la nuova classe sembra affievolirsi. Nel Giulio Cesare il buono è un politico, Antonio, che si troverà però dalla parte della vecchia classe dominante nel dramma successivo, Antonio e Cleopatra

In questa tragedia, il giovane buono designato da Shakespeare è nientemeno Cesare Ottaviano Augusto, che la vittoria in Egitto porterà a governare i destini del mondo. Però, Augusto non ha più nulla del coraggio, della simpatia e della carica di Fortebraccio o Edgar. È assolutamente politically correct, parla come un libro stampato. Ma è ambizioso, tutt’altro che simpatico.
Shakespeare cambiò profondamente giudizio sul nuovo che stava andando al potere, in appena una decina d’anni tanti quanti ne passano tra l’Amleto e Antonio e Cleopatra. Cosa lo spinse? Non lo so, ma – a conferma di come i classici non cessino mai di parlare a chi li interpella – sto vivendo in questi giorni lo stesso disagio che dovette affliggere il buon William.
Veniamo a noi, dopo cotanta premessa letteraria.
In questa transizione infinita che l’Italia sta vivendo, tra una prima repubblica sicuramente tramontata ed una seconda, o terza, o quarta che non ha mai seriamente messo radici, il nuovo più o meno da tutti riconosciuto è Matteo Renzi. Al quale ho creduto fin dalla prima ora.
Renzi ha vinto, e ne sono stato contento. Ma da quando l’ho visto da Fazio, ospite della trasmissione televisiva Che tempo che fa, ho cominciato a sentire la stessa, strana sensazione che percepiva Pietro, protagonista dell’indimenticabile Ovosodo di Paolo Virzì (renziano anche lui, ma questo è un altro discorso) e che gli impediva di essere del tutto felice: sento, quella specie di ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico.
Dopo vent’anni di berlusconismo e di veline e di reality, era lecito aspettarsi qualcuno che fermamente credesse che la politica non si fa con le parole, con gli slogan, e che pur quando si debba ricorrere alla battuta ad effetto lo si faccia sempre nel rispetto delle persone, della storia, della memoria. 
Mi  è sembrata del tutto infelice e deludente l’uscita di Renzi riguardo la possibile cancellazione delle Province in Italia. Il neosegretario del Pd ha detto che se 5.000 politici, sostanzialmente delle Province, provano l’ebbrezza di tornare a lavorare sarà un segno di speranza.
Un’affermazione molto calcolata, un tantino cinica. Molto da Cesare Ottaviano Augusto.
A parte il fatto che viene disinvoltamente dimenticato che quei 5.000 politici sono stati eletti democraticamente, dal popolo, grazie a libere elezioni, la dichiarazione di Renzi mi pare rozza, demagogica, populista e stupida. 
Non so quanti presidenti di provincia abbia conosciuto di persona il neosegretario del Pd. Forse solo quel Matteo Renzi che guidò la Provincia di Firenze. Ergo, per dire quel che ha detto, o Renzi non ha una grande opinione di se stesso, oppure ha la memoria corta.
Io invece serbo memoria di grandi uomini che da presidenti della Provincia hanno fatto tanto per le loro comunità e – cancellazione o meno delle Province-, questa memoria voglio tenermela tutta. 
Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi presidenti della Provincia di Foggia come Michele Protano, Antonio Pellegrino, Francesco Kuntze, Gabriele Consiglio (per citare solo quelli che non sono più con noi). Hanno lasciato tanto nella storia di questa terra, e la mia speranza – e credo quella di tanti concittadini – sarebbe non già quella che tornino a casa, ma quella che possano ancora spendersi per la nostra terra, se ancora potessero farlo.
Sparare sulla croce rossa è uno sport nazionale, e ciascuno è libero di farlo. Sparare sulla storia è miope. 

[P.S.: Nello scontro decisivo tra Antonio e Cesare Augusto, il primo avrebbe potuto facilmente aver ragione dell’avversario se avesse deciso di attaccarlo a terra. Mal consigliato da Cleopatra, accettò invece la sfida in mare. E fu sconfitto. Io sarei andato per mare. E tu, Matteo?]
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Author: Geppe Inserra

1 thought on “Perché Renzi mi piace sempre meno

  1. Caro Geppe,
    traducendo credo che Renzi volesse dire questo: c'è troppo spreco negli enti locali, diamo un segnale chiaro di discontinuità con i costi della politica (intesa come gestione del potere), cominciamo col taglio delle Province.
    Anch'io non credo che abolendo le Province alla fine avremo avuto un gran recupero di miliardi, ma da qualche parte occorreva cominciare per giungere al dimezzamento dei parlamentari e all'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. E il segnale dato da Renzi, di cominciare con le Province (punto presente in tutti i programmi elettorali dei partiti italiani!), va in questa direzione.
    Io sono, come dicevo, solo parzialmente d'accordo ma tu, Geppe, non mi dirai che – a fronte dei buoni esempi di giunte provinciali da te citate – la Presidenza Stallone abbia brillato nel contenere certe spese. Erano i tempi delle tante inutili Agenzie, dei tanto inutili Esperti, della pubblicazione di un faraonico libro ("La Grande Madre") costato ai cittadini di Capitanata la bellezza di 90.000 euro, di quella sola azienda che potè beneficiare di centinaia di migliaia di euro per "fiere" e "giornate" enogastronomiche.
    Seguo Renzi da quando era ancora un illustre sconosciuto sulla scena nazionale (mentre ora, anche a Foggia, fanno a gara a salire sul suo carro) e a fronte di qualche difetto credo abbia molti più requisiti di tutti gli ultimi leader del PD messi insieme.
    Come dissi a suo tempo per Berlusconi, vediamo cosa vorrà e saprà fare. Non sono pregiudizievole per natura. Eessendo un popolo di 56 milioni di allenatori della Nazionale, siamo invece troppo male abituati a ciarlare prima del tempo. E se c'è qualcuno convinto di saper governare, oggi, un Paese come l'Italia si faccia avanti, purché non confonda il governo di una nazione con quello di un condominio.
    Maurizio De Tullio

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