Michele Vocino: Capitanata, crocevia del mondo

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Dalle prime lotte tra Romani e Sanniti, e dalle guerre puniche, colà culminanti nella battaglia di Canne, alle invasioni barbariche, alle aspre contese tra Longobardi e Bizantini e tra Bizantini e Normanni, fino ai tempi avventurosi degli Svevi, degli Angioini, degli Aragonesi, dalle dominazioni straniere aggravate dagli assalti dal mare dei Corsari turcheschi, la Capitanata vide passare sulle sulle sue belle campagne e sulle sue marine “concentrati e riflessi – come dice il Gregorovius – tutti gli eventi storici dcll’ Italia Meridionale.” Di conseguenza, per questa sua posizione così naturalmente esposta ai fatti d’armi e nel succedersi degli avvenimenti storici, furono in
essa edificati, in ogni tempo, vedette, fortilizi e castelli di prim’ordine, i cui avanzi sono ancora adesso di capitale importanza per gli storici e di suggestivo interesse per gli artisti.

Questo l’incipit, veramente memorabile per la sua capacità di raccontare millenni di storia in poche righe e per svelare alcuni tratti dell’identità della nostra terra, de La Capitanata di Michele Vocino che i Fratelli Alinari, editori in Firenze, dettero alle stampe nel 1925, nell’ambito della collezione di monografie L’Italia Monumentale. La pubblicazione di questa collana è contemporanea a quella dell’Italia Artistica, che alla provincia di Foggia dedicò due volumi: Foggia e la Capitanata di Romolo Caggese e Il Gargano di Antonio Beltramelli.
Erano anni in cui il Paese scopriva la propria bellezza e la propria vocazione turistica. E la provincia di Foggia era ben presente, anche in misura maggiore rispetto alle altre province pugliesi, in questo processo.
Anche per questo il libro di Vocino è importante, da rileggere e da riscoprire.
Il testo, pubblicato in edizione trilingue, con traduzioni in inglese e francese, è una guida storico culturale della Capitanata, ed è accompagnato da un ricchissimo corredo fotografico: 64 immagini, tratte dallo sterminato archivio dei Fratelli Alinari, che offrono immagini di angoli della Capitanata che ormai non ci sono più,
Michele Vocino è stato uno dei pionieri della pubblicistica contemporanea della Capitanata, intendendo, con questo termine, la letteratura prodotta da autori di questa terra, che scrivono su di essa per tramandarla e per raccontarla, per promuoverla anche dal punto di vista turistico.
Originario di Peschici, che rappresentò anche in Palramento, quale deputato della Democrazia Cristiana. è stato anche uno degli autori più prolifici: la sua produzione è veramente sterminata.
La bibliografia completa degli scritti di Vocino e su Vocino può essere trovata assieme a dettagliate notizie biografiche – nella bella voce dedicatagli dalla sezione del sito della Biblioteca Provinciale di Foggia, La Meravigliosa Capitanata, curata da Francesco Granatiero.
Lettere Meridiane pubblica a puntate l’opera di Vocino. Oggi la prima parte, nei prossimi giorni la seconda, e le fotografie che illustrano il prezioso testo.

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Dalle prime lotte tra Romani e Sanniti, e dalle guerre puniche, colà culminanti nella battaglia di Canne, alle invasioni barbariche, alle aspre contese tra Longobardi e Bizantini e tra Bizantini e Normanni, fino ai tempi avventurosi degli Svevi, degli Angioini, degli Aragonesi, dalle dominazioni straniere aggravate dagli assalti dal mare dei Corsari turcheschi, la Capitanata vide passare sulle sulle sue belle campagne e sulle sue marine “concentrati e riflessi – come dice il Gregorovius – tutti gli eventi storici dell’ Italia Meridionale.” Di conseguenza, per questa sua posizione così naturalmente esposta ai fatti d’armi e nel succedersi degli avvenimenti storici, furono in essa edificati, in ogni tempo, vedette, fortilizi e castelli di prim’ordine, i cui avanzi sono ancora adesso di capitale importanza per gli storici e di suggestivo interesse per gli artisti.

La Cattedrale di Foggia

Di costruzioni anteriori all’epoca sveva non resta tuttavia che una torre, detta dei Giganti, la quale fa parte del castello di Montesantangelo, costruito per ordine di Ursus, vescovo di Benevento e Siponto,sulla fine del IX secolo, dimora dei Catapani ducali nel secolo XI, tra i castra exempta nell’epoca sveva, prigione di Stato nell’angioina, restaurato ed ampliato dagli Aragonesi specialmente tra il 1491 e il 1493, ceduto nel 1497 a Consalvo di Cordova, venduto ai Grimaldi nel 1340, smantellato dal Comune al quale era passato pei debiti della sua ultima castellana Donna Liana Principessa di Gerace, donato da Ferdinando IV al Cardinale Rufio pei servigi della Santa Fede.
Per quanto barbaramente devastate, mantengono tuttora un aspetto veramente grandioso le rovine della cittadella sveva a Lucera, “quasi miserabile avanzo di scheletri d’armi abbandonati alla campagna —- come le disse il Caggese — e insepolti lungo il corso dei secoli”. Fatta costruire per i suoi soldati saraceni tra il l233 e il 1239 da Federico II, munita di venti torri, cinta di salde muraglie, in cima a1l’alta sporgenza quasi a picco dominante per largo tratto la pianura,essa costituì, ai suoi tempi, una fortezza formidabile, quando tra le sue mura tutto un industre e pittoresco mondo saraceno sorse in caserme e private abitazioni, moschee, officine, telai, fabbriche d’armi e di ceramiche. allevamenti di cavalli arabi e di cammelli, serragli di leopardi addestrati alla caccia, e grida di soldati vittoriosi, e risa d’odalische, e canti di troveri di Sicilia e di Provenza!
Attualmente non resta che l’ampia cortina munita, ad intervalli equidistanti, di torri quadre, a bastioni, e di due enormi torri rotonde, dette del Re e della Regina. o del Leone e della Leonessa. Nell’interno quasi tutto è raso al suolo: del palazzo imperiale, che Federico aveva fatto costruire ed arredare con lusso sfarzoso, non restano che le vestigia d’una grandissima sala, e, qua e la, qualche avanzo di scala o di volta, poiché sulla fine del secolo XVIII fu abbattuto per impiegarne i materiali in costruzioni cittadine.
Né migliore sorte ebbe il castello ove il grande imperatore Svevo si spense: Castel Fiorentino, a circa sei miglia da Lucera, prigione e tomba di Pier delle Vigne, dove Federico II si era, per improvviso malore, fermato – di mala voglia, poiché l’astrologo Michele Scott gli aveva predetto la morte in un luogo nomato dal fiore — e vi era morto, infatti, il 13 dicembre 1250.
Avanzi di fabbriche sveve si riscontrano anche tra 1e rovine del castello di Vico, attualmente incastrate e fuse in un vasto fabbricato costituito da sovrapposizioni, aggiunte e restauri d’epoche diversissime; c precisamente alcune volte a crociera, le cui pesanti costole e i modiglioni ricordano lo stile dei castelli a forme gotiche fatti costruire da Federico II: costruzione questa, di Vico, la quale può forse risalire alla metà del XIII secolo, dopo che, nel 1240, una squadra veneta, nella nota lotta contro l’Imperatore, ebbe a devastare e a saccheggiare le terre e i casali del medio Adriatico, da Termoli a Vieste.
Anche il castello di Vieste, alto sul mare, ebbe a subire molti danni da quella incursione, e certo fu noi restaurato da Federico; però le parti di esso pervenuteci appartengono ai secoli XVI e XVII, per quanto siano evidenti, qua e là, le tracce di epoche anteriori.
Un bell’esempio di architettura militare, che presenta, per altro, gli stessi caratteri costruttivi di molti castelli di città marittime medioevali, ci resta nel fortilizio di Manfredonia, costituito da un tozzo edificio quadrilatero, munito di grosse mura terminate a tre degli angoli con robuste torri tonde ed al quarto da un saldo bastione pentagono; nell’interno del recinto sorgono altre quattro torri, di cui tre tonde ed una quadrata; di fuori ancora restano tracce del rivellino, del cammino coperto e del fossato. Ideato da Manfredi, iniziato per ordine di Carlo d’Angiò intorno al 1279 dall’architetto Pietro d’Angicourt, restaurato radicalmente da Alfonso e da Ferdinando d’Aragona per rinsaldarlo contro i continui assalti turcheschi nel secolo XV, adattato, nel secolo successivo, alle nuove esigenze dell’arte bellica determinate dall’introduzione delle armi da fuoco. poté resistere validamente ad assedi e ad assalti da terra e da mare. ma non riuscì a respingere, nell’agosto del 1620. l’ impeto dei Turchi, che misero a sacco e a fuoco la città per più giorni. Tra quel che resta a stento si riesce ad individuare le fabbriche delle varie epoche; ma la porta e qualche modiglione o mensola presentano le caratteristiche delle costruzioni angioine, ed una epigrafe sulla torre meridionale porta la data del 1458.

Il Castello di Vico Garganico

D’origine più recente, in genere, sono i palazzi baronali che quasi ogni terra o città di Capitanata tuttora serba come ancora a guardia delle sue povere vecchie abitazioni: il fosco piccolo maniero dei della Marra a Sannicandro, passato poi, per molte famiglie feudali, ai Cattaneo; ad Apricena l’antica villa di caccia degli Svevi, passata ai Gonzaga, ai di Sangro, ai Carafa, ai Lombardi, ai Brancia, agli stessi Cattaneo e finalmente ai marchesi Imperiale; a Peschici il caratteristico castelletto, abbarbicato in cima ad un enorme scoglio quasi a picco sul mare; a Torremaggiore l’elegante palazzo ducale, turrito e merlato, fatto costruire verso la fine del secolo XVI da Paolo di Sangro, crudelissimo feudatario che ne intristì i sotterranei di prigionie e di delitti; a Bovino; ad Ascoli Satriano; a Deliceto; a Celenza Valfortore; a Pietra Montecorvino.
Pur senza le dovizie ancora intatte o pazientemente ricostruite di molti altri castelli d’Italia, questi di Capitanata serbano, anche nel loro abbandono, così possentemente impressa l’impronta  del loro antico fasto. che non si possono visitare, sol che si conosca per grandi lince le vicende storiche del Mezzogiorno, senza una profonda commozione. In quelle solitudini, che hanno malie strane, su quegli ampli orizzonti marini appena rotti da qualche solitaria vela bianca, in quell’ardore della terra brulla, nella solennità del Tavoliere e nelle verdi convalli del Gargano, sembra che più raccolto e più possente si fermi il fascino delle memorie intorno a quelle grandiose rovine, ai diserti torrioni, ai fossatelli ingombri d’erbacce e popolati di ramarri!
Ma i castelli non rappresentano, per lo storico e per l’artista, il maggior fascino della Capitanata monumentale. poiché un ben più ricco e più interessante patrimonio nelle costruzioni sacre medioevali essa possiede: cattedrali imponenti tra umili case borghesi; edifici misteriosi intorno ai quali l’indagine archeologica s’affatica inutilmente senza riuscire a trovarne l’origine sicura; portali superbamente intagliati; fiori marmorei sperduti nella campagna solatia.
Michele Vocino
(1. continua)

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Author: Geppe Inserra

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