Cinemadessai | Il Boss, così Di Leo reinventò il noir

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OGGI
Dopo l’ammissione del debito che ha nei suoi confronti Quentin Tarantino, il regista Fernando Di Leo, nato a San Ferdinando di Puglia, ma foggiano d’adozione, è stato al centro di una generale riscoperta della critica, che gli ha riconosciuto il ruolo di anticipatore e precursore del genere poliziottesco. Il film che maggiormente rivela questo aspetto della cinematografia di Di Leo è Il boss, in onda stasera, su Cielo, alle 23.15.
Terzo e ultimo capitolo della trilogia del milieu, ambientata a Palermo ed ispirata ad un romanzo americano di Peter McCurtin, la pellicola affronta un tema classico del gangster movie, raccontando l’ascesa nelle gerarchie criminali di un killer, Nick Lanzetta (interpretato da un grande Henry Silva) tanto spietato quanto intelligente nel comprendere e far girare a suo vantaggio gli ingranaggi che regolano i rapporti nel mondo della mafia.
Alla fine, sembrerebbe che Lanzetta riesca a raggiungere la vetta del potere criminale, ma Di Leo lascia volutamente ambiguo il finale, facendo comprarire sui titoli di coda la scritta “continua”.
Di Leo trasferisce al noir gli stilemi e la violenza dello spaghetti western di cui è stato uno degli autori, il risultato è un genere di taglio nuovo, un approccio diverso al poliziesco, che anni dopo – grazie anche a Tarantino – avrebbe raggiunto una dimensione “industriale”.
Uscito nel 1973, il film non è privo di riferimenti all’attualità, e ai complessi rapporti tra mafia e politica. Un ministro democristiano dell’epoca si identificò nel personaggio del politico colluso con Cosa Nostra e denunciò il regista, che venne assolto.
Le sequenze iniziali che mostrano il massacro operato dal killer all’interno di una sala cinematografica privata, sono la più eloquente conferma che Tarantino non ha esagerato, quando lo ha definito suo maestro.
Di Leo firmò la sceneggiatura, oltre alla regia. La colonna sonora è di Luis Bacalov, il cast comprende oltre ad Henry Silva, un grandissimo Richard Conte, Gianni Garko e Vittorio Caprioli. Da non perdere.
DOMANI
Il Colosso di Rodi è il film meno noto di Sergio Leone, ed anche il meno bello, ma per gli estimatori del grande regista di C’era una volta in America, è pur sempre un oggetto di culto, come tutte le sue opere.

In più, ha il pregio di rappresentare il primo lungometraggio diretto da Leone, nel lontano 1961, nonché il primo ed ultimo sconfinamento nel genere peplum, particolarmente in voga all’epoca. Ed anche il solo film che non vide la collaborazione, alle musiche, di Ennio Morricone.
Ma che stava per nascere un genio assoluto del cinema di tutti i tempi, lo si intuisce, già da Il colosso di Rodi.
Per Leone l’approdo al cinema mitologico fu abbastanza naturale, dopo che aveva calcato, come aiuto regista, il set di due filoni come Ben-Hur e Quo vadis.
Il film, che RaiMovie manda in onda domani, in prima serata alle 21.20, racconta le gesta dell’eroe ateniese Dario, che si reca sull’isola di Rodi per ritemprare le forze. Qui trova una situazione politicamente esplosiva: il  popolo trama contro il tiranno Serse, che aveva fatto costruire il famoso Colosso, con il quale controllava l’uscita del porto.
Dario si unisce ai congiurati e cerca aiuto in Diala, figlia del costruttore del Colosso. Mentre il popolo si solleva, Tireo tradisce la sua città e si accorda con il popolo dei Fenici per prendere d’assedio la città. L’assalto ha inizio: Dario e i congiurati fuggono, mentre la terra comincia a tremare, per le scosse di un violento terremoto…
Il respiro della narrazione è epico, e il ritmo è intenso. Sergio Leone mostra di trovarsi a suo agio nella narrazione di momenti ricchi di epos. Affiorano già alcuni momenti che diventeranno centrali nella cinematografia di Leone, come la sottolineatura della importanza della lotta per l’emancipazione delle classi più disagiate e per la libertà, ma anche il ricorso a rappresentazioni esasperate della violenza, come strumento di coercizione politica.
Un film da non perdere, soprattutto per i cinefili.

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Author: Geppe Inserra

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