Appunti per un rinascimento foggiano (di Franco Antonucci)

Franco Antonucci ha spesso appassionato e deliziato gli amici e i lettori di Lettere Meridiane con la sue acute osservazioni, con il suo sguardo di prospettiva, con la sua capacità di volare alto e di disegnare per Foggia e la Capitanata orizzonti non convenzionali, e che dimostrano quanto essere possano e debbano volare alto.
Questa volta l’amico Antonucci si supera, regalandoci un articolo-saggio che, partendo da una questione solo in apparenza estetica (Foggia è bella o brutta?) rilancia temi nevralgici del futuro, a cominciare dalla necessità di una nuova visione urbanistica, architettonica della città capoluogo e delle sue relazioni con il territorio provinciale, potenziale ed originale area vasta. Leggete con attenzione. Riflettere. E poi dite la vostra. (g.i.)

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I giudizi estetici sono sempre soggettivi, e soprattutto nel particolare caso dell’estetica urbana, i dubbi sono ancora più intricati ed opinabili. Giacché gli elementi di valutazione sono, in tale caso, un groviglio maggiore di componenti, dove è difficile orientarsi. Lo è da tempo la stessa Urbanistica in generale. Pertanto si tratta, nella maggior parte dei casi, soltanto di sensazioni a pelle.
Una città è una macchina astrusa, che agli aspetti positivi/negativi di fondo sovrappone altri più superficiali, contingenti, che confondono.
Lo stesso può dirsi per la più generale capacità di interazione vasta, urbana-territoriale.

La città di Foggia e la sua Capitanata, in merito alla attribuzioni di etichette “brutte” o “belle”, hanno un lungo racconto storico di “marginalità” endemica, interna/esterna, non ancora superata, e che è, invece e purtroppo, uno dei motivi essenziali del giudizio negativo. Con l’accompagnamento di una antica ed obbligata “rassegnazione”.
La Transumanza, spesso esaltata senza precisarne i risvolti negativi, è stata un lungo buio/oblio durato oltre quattro secoli, durante i quali il Tavoliere è rimasto vincolato e soggiogato per usi estranei di pastorizia obbligata, condannando la sua popolazione ad un eccessivo stato di lunga depressione. Anche culturale? No, non credo.
La cultura di un popolo è dura a morire, anche se può nascere, nel frattempo, un suo fatalismo rinunciatario.
Per fortuna si tratta di popolo che possiede una grande fantasia di contrappunto. È questa la speranza più forte per il riscatto, che non può tardare ad arrivare.
Dobbiamo soltanto uscire dalle infinite nicchie della nostra individualità diffusa, dove abbiamo costruito le nostre felicità circoscritte, quasi per difenderci da una lunga storia ed ambiente una volta ostile. Una compressione interiore che ci portiamo addosso come un peccato originale.
Motivi che impediscono l’emersione, ancora oggi, di uno stato collettivo, espansivo. Foggia può sembrare “brutta”, allora, anche perché ha perso la sua estroversa anima collettiva.
Soltanto nel novecento la Capitanata ha ribaltato il Tavoliere malsano transumante, in una moderna Agricoltura rigogliosa, ora tra le prime in Italia. La seconda guerra mondiale ha però inferto un durissimo colpo ad una città/territorio già profondamente segnati.
Non sono alibi banali. Anche se, dopo la ricostruzione postbellica, ci siamo chiusi per tanti altri inspiegabili motivi: è come se avessimo perduto per sempre la “voglia di prospettiva”, e anche questo si legge in una città “brutta” o “bella”. Una persona rassegnata diventa “brutta”. Così la città.
Dentro la città di Foggia i suoi i quartieri sembrano tra loro repulsivi, nascondendosi l’un l’altro. Con rispettive autonomie infruttuose. Che non guardano alle “connessioni possibili”, invece, dell’intero contesto urbano come obiettivo ultimo di cucitura unitaria. Ovvero traguardando verso quelle connessioni ancora più lunghe, di riappropriazione territoriale vasta “necessaria”. Come se avessimo paura del nostro territorio troppo grande, indefinito.
Una sorta di agorafobia che si ripete e perfino si amplifica oltre e fuori della città si ripete, innescando un’ulteriore e diversa segregazione di livello superiore: quella delle tante città daune, tra loro separate, quasi in competizione. Che compongono, invece, un magico ed originale “reticolo territoriale” poli-urbano, da sinergizzare, non da confinare. Ideale laboratorio di sperimentazione un’area vasta che qui potrebbe essere costruita in modo del tutto nuovo, originale.
Invece si vive come separati in casa, in un territorio poli-urbano abbruttito.
La Capitanata è un esempio di poli-articolazione urbana rara nello scenario delle altre Province italiane mono-urbane. Occasione da non perdere, per un territorio poli-integrato, evitando doppioni, sprechi.

Ci sono tante città in Italia che a primo colpo sembrano apparentemente belle, e che, invece, sono solo “imbellettate”, con problemi sotto-pelle. E, viceversa, città che “appaiono” brutte o solo “imbrattate”, che dentro, invece, possiedono elementi caratteriali forti, non ancora affioranti. Relativamente facili da riportare in superficie. Bellezza non truccata. Bellezza acqua e sapone.
Foggia è questo. Quello che non contestiamo della città spesso non è un “brutto strutturale. Anzi.
Altro segnale importante negli scenari complicati delle città, che non è solo banalmente estetico, è quello della città “bella dentro”, ovvero del “dove è bello viverci”.
Credo che Foggia, rispetto a tante città confuse, è un luogo naturale, forse più semplice, dove è sereno viverci. Anche se alcune rigide e pretenziose graduatorie elevano la “qualità della vita” a generalizzati parametri di una globalizzazione amorfa, che è forse meglio che non ci appartenga. Anche se questo non basta, ovviamente, per essere assolti.
La mia opinione – e non tanto solo come foggiano -, è che Foggia “non è brutta”, anche se non posso ancora definirla “bella”. Credo che Foggia sia molto trascurata, abbandonata ad una sua inerzia ingiustificata.
Sembra che sia sempre con i vestiti di casa. Anche quando esce nel giorno di festa.
È una città che ha, invece, sottomano tanti elementi primari (i suoi tratti tipici, caratteristici, identitari), che, portati a lucido, o semplicemente modificati con relativa facilità, ci riporterebbero senz’altro verso una “città bella a suo modo”. Genuina, autentica. Senza emulare modelli globali, a mio avviso, fatui.
Siamo in crisi, ma non ancora una crisi di identità profonda. Siamo in tempo per risalire la china con la “nostra visuale”.
Occorre che l’intera città, e il suo territorio disarticolato, capiscano una volta per tutte tutto questo, riscoprendo le loro reali potenzialità, ora solo sottilmente velate, ovvero, per qualche altra misteriosa e imponderabile ragione, frazionate. Sperando solo in una magica mossa strategica collettiva di ricomposizione unitaria. Di colpo il brutto va in bello, senza distruggere quello che c’e.
Pur anche un cambiamento di look soffice. Prendendo ciò che sta a portata di mano. Iniziando dalla forma della città, senza sventrarla.
Possiamo intervenire subito e facilmente sugli assi e i corridoi di “accesso urbano” (anche territoriale), che corrono dritti al cuore della città. Quindi legarli, dall’altra parte verso il territorio aperto, magari lungo le radiali (Verdi) dei lunghi tratturi. Senza grandi gesti rivoluzionari.
Un nuovo grande-spontaneo atteggiamento collettivo di prima apertura. Che va oltre, accompagnato da una parallela presa di coscienza sulle seconde, terze mosse, assunte in perfetta “continuità”. Tenendo sempre ferme le nostre “peculiarità”.
Trattando gli spazi e gli oggetti urbani, come strumenti malleabili rispetto alla nostra identità collettiva riconquistata. Tutto il resto è superfluo.
Foggia è città compatta nei suoi tanti tessuti densi, ma non nell’anima che spazia. Dobbiamo ricomporre, usando le stesse tessere.
Foggia deve ri-distendersi e ri-guadagnare i suoi spazi esterni, con un processo di dilatazione dal centro verso le periferie e poi nel territorio profondo e in quello poli-reticolato.
Questo non significa, ovviamente, ritorno all’espansione fisica della città, e derivato “consumo di suolo”. Piuttosto un’espansione di cuore. Ovvero espansione psicologica, dall’individuale al collettivo. Dove per “spazio”, in questo caso, intendiamo qualcosa di etereo, che ci accomuna.
E nemmeno per opposto concetto di “città diffusa”, casuale, alla conquista di impropri territori di prossimità. Per fortuna una delle “peculiarità” positive della città di Foggia è proprio quella di aver contenuto il fenomeno della “città diffusa”, che in altre città, tuttavia definite “belle”, è un effetto/difetto molto più consistente, ormai irreversibile, al punto di generare in quei casi convulse ricerche per metropolizzazioni ingiustificate, solo per coprire le casualità dei fenomeni diffusivi. Distorsioni peggiori.
Gli spazi interni della città di Foggia, devono, allora, rovesciarsi come “anticamere” di un più grande fenomeno di territorializzazione “scenica” in un certo senso. Dando spazio ad un nuovo concetto di Paesaggio dauno “a scorrere”. Liberare la fantasia, senza confini.
Foggia deve diventare la città delle “grandi piazze”, dei lunghi “Corridoi prospettici” (verdi), che preludono anche a nuovi “episodi architettonici”, ripensati non più come “quinte di chiusura”, ma come “solidi di fuga” verso spazi, più aperti o semplicemente più continui.
Per fare bella Foggia non bastano nuove ed isolate Architetture eccellenti, ma un insieme coordinato di Architetture, recuperando e rigenerando (non distruggendo) i nodi urbani più rigidi.
Foggia deve ripartire soprattutto dagli spazi della “continuità” e reciprocità ciclica. Con tipicità assolutamente foggiana. Lontano da ogni modello esclusivamente emulato secondo perduranti culture razionali/funzionali.
La forma della “città nel suo territorio” diventa preminente.
La piazza Cavour e la piazza Giordano sono due di questi grandi spazi urbani di prima eccellenza, soprattutto in termini di originalità prospettica totalizzante, in un certo senso tipica-foggiana. Che dovremmo assumere come riferimento essenziale (o modello) per il loro grande effetto di “sguardo penetrante” nei confronti di contesti urbani più estesi che le stesse due piazze singole delimitano.
“Spazialità” foggiana senza limiti.
Due piazze dotate di cannocchiali urbani a giro, che coinvolgono spazi e strutture urbane interne a dismisura. Dietro i loro sguardi lunghi si potrebbe ancor più ri-articolare gli altri spazi più interni, a loro volta “aperti” nei confronti di altri più esterni verso la periferia della città. E così via, fino a raggiungere le più recenti “propaggini” urbane, che, pur presentandosi in molti casi più o meno decorose, non offrono un analogo senso “spaziale esplodente”. In ultimo definitivamente aperte alle radiali e alle anulari territoriali vaste, della Transumanza e della Bonifica novecentesca.
Un processo graduale di estensione logica progressiva. Una specie di nostro “moto perpetuo”.
Le nuove Architetture guarderanno, allora, sempre più lontano, “rimandando ad altro”, secondo una nostra speciale “Urbanistica”, che definiremo anch’essa “tipicamente foggiana”.
Ricordando, magari, i retaggi della nostra “Architettura contadina-mediterranea” antica. Che spesso nascondiamo come edilizia degradata, di cui vergognarsi. A mio avviso erroneamente attribuita alla temporaneità post-terremoto del 1731 e simili.
Tipica “Architettura del sole foggiana”, che guarda sempre oltre il limite, verso la luce degli infiniti spazi del suo Tavoliere, delle sue Borgate, delle sue Masserie, dei suoi Manieri abbandonati.
Manteniamo qui i giovani Architetti foggiani nella loro città e territorio, affidando loro una grande e nuova “funzione sociale” generale, oltre che architettonica specifica.
I giovani Architetti foggiani, bravissimi, perle di fantasia dauna, dimostrano solo altrove il loro estro. Evitiamo facili emigrazioni alla ricerca di occasioni professionali più congeniali. Trasformiamo in occasioni “nostre” la loro spasmodica ricerca di quello che ora qui non trovano, condannandoli nel ruolo generico di “Architetti condotti”, tutto fare.
A volte penso che a Foggia sarebbe stata opportuna e stimolante una Facoltà universitaria di Architettura. Ma poi mi rendo conto che è un falso problema. Una nuova Foggia “bella” potrebbe arrivare tutta dalla magia delle mani dei nostri giovani Architetti, e dalla loro “fantasia liberata”.
Consentendo loro una riorganizzazione di qualità, anche strutturale inter-professionale ed inter-disciplinare, che tornerebbe utile anche al “dibattito più generale” sulla città e sul territorio.
Analogamente valorizzando il mondo dei giovani Artisti foggiani, che per essere apprezzati, anche loro devono andare via lontano, al nord, dove, dicono, ci sono i circuiti artistici giusti per adeguati trampolini di lancio. “Arte Fiera” a Foggia, come a Bologna. O altro per mantenere lo spirito artistico locale dentro il proprio alveo-città. Una città diventa e si mantiene “bella”, dicono, anche quando si alimenta della sua consistente massa di “Arte interna”. Dicono. Più Arte più “bellezza”.
E poi ci sono i “giovani” di tutti i tipi. Una città di tanti giovani è già di per sè “bella”.
In una parola lavorare al massimo sulla “cultura sommata” della città, storia-arte-archeologia-ambiente-Paesaggio-turismo, tutti declinati nella forma “giovane”.
Sulla scia di Geppe Inserra e del suo impegno nella divulgazione della cultura locale ritrovata.
Il grande canale culturale si sta ovunque concentrando nell’alveo del multi-flusso turistico nazionale, del quale quello di Capitanata – non secondario -, prende per la tangente la città di Foggia. Approfittiamo di questo fenomeno globale e ri-posizioniamo il canale multiculturale territoriale “centrato”, secondo l’antica “raggiera” territoriale tratturale, senza le precedenti supremazie gerarchiche. Da questo grande canale oggi in voga potremmo nuovamente estrarre la nostra identità, antica e moderna-giovane.
Tirare fuori dai Musei foggiani, non ancora visibili, tutti i gioielli e i reperti dimenticati negli scantinati. Anche scavando e/o ri-aprendo gli ipogei che nascondono gran parte della Storia di Foggia, legandola a quella, più antica della città di Arpi, ancora sepolta. Estrapolando all’esterno i segni invisibili sotterranei, come elementi indelebili di un passato che esce fuori in superficie e disegna il futuro.
Foggia creativa deve attingere a tutte le sue risorse. Esplicite/implicite. Deve anche uscire anche fuori dai propri circoli viziosi chiusi, relazionandosi, senza emulare passivamente soltanto. Guardando anche attraverso Reti sempre più lunghe. “Cultura di prospettiva critica”.
Forse tutto questo troverà il solito nemico di sempre, il fatalismo foggiano. Che inquina anche il più sommesso linguaggio della creatività, appiattita in una prassi che non è più solo foggiana.
Ma non scoraggiamoci. Sotto il telo risiede ancora intatta la genialità foggiana, che riconosciamo solo quando va fuori. È il “contesto lento” che ci frena. Lasciamo libero il nostro cuore per correre.
“Dite la vostra che io ho detto la mia”.
Eustacchiofranco Antonucci.

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Author: Franco Eustacchio Antonucci

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