Il viaggio, un racconto natalizio di Mimina Tenore, grande scrittrice dimenticata

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Mimina Tenore è un’autrice foggiana che andrebbe riscoperta. Scrittrice di notevole caratura, pubblicò soprattutto racconti, per lo più su giornali e periodici locali foggiani che la videro tra le più instancabili animatrici, ma anche presso editori di calibro come Gastaldi, per i cui tipi vennero stampate le raccolte di novelle L’incontro, Il messaggio di Mimosa e Gente Minima. Il titolo di quest’ultima raccolta, Gente Minima, è particolarmente significativa della poetica della Tenore, la cui scrittura si occupò in prevalenza degli strati più bassi e disagiati della popolazione.

Scrivendone, Salvatore Ciccone la descrisse come una scrittrice dimenticata. Lettere Meridiane si sforzerà di rimuovere la patina d’oblio caduta su questa grande autrice, la cui capacità letteraria è ampiamente dimostrata dal racconto natalizio Il Viaggio, pubblicato dal settimanale Il foglietto per il Natale del 1953. Vi si racconta un’amara storia di emigrazione e di sopraffazione maschilista, riscattata dalla potenza morale della donna che ne è protagonista e di suo figlio, gente minima che riuscì a non arrendersi al destino cui sembrava condannata.

Ricorrendo sapientemente alla tecnica del flash back, Mimina Tenore dà una grande prova di scrittura e di ritmo narrativo. Potete leggere il racconto di seguito. Se volete scaricarlo in formato pdf e conservarlo, cliccate qui.

Il viaggio

Racconto natalizio di Mimina Tenore

 

L’accelerato aveva preso correre. Doveva essere entrato in pianura. Con quei sobbalzi e quelle faticose salite aveva superato le colline ed ora si slanciava, quasi come un diretto, nel vasto Tavoliere.

Salvatore  Dalì ricordò la voce di sua madre: «È un paese, quasi una borgata, al limite della pianura. C’è una stazioncella in aperta campagna e poi parecchi chilometri che non affaticano. Ma, forse, una corriera ci porterà sino in piazza. Lì c’è la chiesa. Andremo direttamente in chiesa, Salvatore. Bisogna offrire al Bambino i nostri risparmi. Sono in quella vecchia borsa nel tiretto del mio cassettone.»

«Sì, mamma. Ascolteremo la messa di Natale.»

Così, sin da quando era giovinetto.»

«Quest’anno, mamma?»

«No, caro, questo Natale no. Non è possibile. C’è la guerra. Lasciamola passare.»

La guerra era passata.

«E allora, andremo in Italia?»

«Sì, questo Natale, andremo in Italia.»

«Finalmente, mamma!» Ed erano incominciati i preparativi nella piccola casa a Jefferson, nel Missouri. La madre aveva chiesto un permesso al principale: «Andremo in Italia, mister Brown, sì al mio paese. Vogliamo arrivarci per Natale.»

«Mancate da molto, mistress Dalì?»

«Oh! sì, da venti anni. L’età di mio figlio.»

«All right, mistress Dalì. Vi accordo il permesso.»

* * *

«Mamma, ho avuto anch’io il permesso e una piccola gratifica», aveva esclamato, quel giorno, Salvatore, entrando nel tinello. Ma il tinello era vuoto e la cucina anche. «Mamma» gridò allarmato, spalancando la porta della sua camera. Lei era là, riversa, con le mani aggrappate alla coperta, nel vano tentativo di stendersi sul letto. Lui l’aveva spogliata piano, con estrema cura. Era così leggera, piccola, minuta fra le sue braccia forti. Lei aveva aperto gli occhi, gli aveva sorriso con lo sguardo. Non poteva di più. Poi, lo chiamò: «Salvatore.»

«Mamma, non t’affaticare. non parlare. Stai meglio, mamma. Lo ha assicurato il dottore. Sai, il cuore è un po’ stanco.»

«Salvatore, vieni.»

Egli s’era chinato su lei, col viso accosto al suo e tutto il cuore stretto da un laccio di gelo.

«Bisogna che tu vada, Salvatore. Dopo, dopo, anche solo. Ho promesso.»

«Andremo insieme, mamma, come avevamo sognato.»

«No, Salvatore, ma io ti accompagnerò lo stesso.» Fu allora che gli disse: «È un paese, quasi una borgata, al limite della pianura. Scendono i pastori dall’ Abruzzo. I pascoli sono così verdi! Sembra primavera. I pastori suonano la cornamusa, Ia notte di Natale.»

Il treno incominciò a rallentare e Salvatore pensò che, forse, stava per giungere. Si sarebbe fermato a B… certamente. Glielo aveva assicurato un ferroviere, alla stazione di Napoli.

«Prenda questo, ferma a tutti i casolari.»

Afferrò la valigia dalla rete, uscì sul corridoio, in tempo per sentir gridare, nel silenzio il nome del paese.

Aprì lo sportello e saltò giù. Lui solo.

Il ferroviere che risaliva il convoglio, in coda, lo guardò sorpreso.

«Ah! C’è qualcuno che scende a B…? Proprio la notte di Natale?»

Il treno già lontano. La stazione aveva le finestre chiuse. ma due porte spalancate mandavano una luce rossastra. Vi si diresse. Nell’ufficio, il capo-stazione parlava con un ferroviere che aveva in mano una lanterna, forse l’uomo degli scambi. Al suo entrare si voltò sorpreso: «Siete arrivato adesso? Non vi avevo visto scendere. Eravate in coda? Non c’è corriera sino a domani mattina. Alle sei parte dal paese. È assai difficile che troviate un mezzo a quest’ora.»

«No, grazie. Non è distante. Sono parecchi chilometri, non affaticano» (ripeteva le parole di sua madre).

«No, non affaticano è vero. Volete andarci a piedi? È una bella notte. Vi troverete alla Messa.»

«Sì, è una bella notte. Sembra primavera. Ci sono i pastori.»

«Come sapete? Siete venuto qualche altra volta?»

«No. Ma me ne hanno parlato».

«Venite, vi indicherò la strada. È quella. Andate sempre diritto. Vedete laggiù? I fuochi dei pastori. Alla Vigilia s’attardano a suonare. Attendono la mezzanotte.»

«Hanno le cornamuse. Sono scesi dall’Abruzzo con le greggi. Lassù c’è la neve. Qui è primavera.» «Ma ci siete stato? Parlate in un modo!… »

«Forse. Addio, signore, e grazie.»

«Buon Natale!»

* * *

Il cuore affaticato di Maria Dalì non ne volle più sapere, aveva bisogno di riposo, lo pretendeva anche se Maria gli implorava di resistere ancora un poco, giusto il tempo di ritornare in Italia, di sciogliere il suo voto, di offrire con sue mani tutti di suoi risparmi di vent’anni, nascosti nella vecchia e logora borsa che aveva nel fondo, accartocciati stretti, stretti i due biglietti da mille. Su quelli, ad uno, ad uno, i dollari s’erano ammucchiati, ad uno, ad uno, mese per mese, sacrifizio su sacrifizio, rinunzia su rinunzia. No, non volle saperne il cuore di Maria Dalì. Ma prima di fermarsi, delirò una notte intera, sino all’alba e parlò, parlò per convincere il ragazzo a partire solo. Un viaggio importante. Un debito di Maria verso quel Bambinello laggiù, nella nuda chiesa del suo paese. E un debito anche suo, di Salvatore. Un debito d’amore e di riconoscenza.

«Ecco, figlio mio, noi dovevamo tornare una notte Natale, tu ed io.»

Il viaggio, ora, non è più possibile per tutti due. Lei rimane qui, a Jefferson. Lui deve andare da solo, Che cosa sa il figlio se non che rimane solo e che anche il vecchio zio il quale li accolse a Jefferson, lui di qualche mese, è morto? E forse, morto anche suo padre.

Il cuore delirò tutta la notte sino all’alba. Narrò una storia, si confessò a un giudice pietoso. E quando alle prime luci del giorno, Maria Dalì riaprì gli occhi scorse il viso lagrimoso di suo figlio chino su di lei, udì la sua voce che prometteva: «Si, mamma, andrò mamma. È questo che tu vuoi? Ci andrò, ma ora riposa. Guarirai, sì guarirai. Devi rimanere con me, mamma.»

Al suono della sua voce, riemerse dalla voragine dove s’era, per tutta la notte, dibattuta con i fantasmi del passato e uno strazio profondo le si dipinse sul viso già disfatto. Aveva parlato?

Aveva, dunque, offuscato la chiara giovinezza del suo figliuolo con il racconto della orribile cosa? Vivere, vivere qualche altro momento per sapere, sapere se il suo cuore impazzito avesse parlato, vivere, Signore, ancora un poco! Forse, per divinazione, il fglio raccolse la tragica sofferenza della madre, perché le si chinò e le chiese: «Volevi dirmi che dobbiamo ringraziare il Bambino di laggiù perché ci ha protetti, lontani dalla Patria?»

«Sì, lei rispose in un soffio», ma ancora l’angoscia le fasciava il viso. Con uno sforzo supremo bisbigliò: «Che cosa ti ho detto, figlio mio?»

«Hai dormito, mamma, hai dormito tutta la notte.» I chiari occhi del figlio raccolsero lo sguardo della madre, alfine pacificato e lo tennero, così, stretto in un’onda d’amore.

* * *

Salvatore Dalì camminava spedito, davvero la strada non affaticava. Di quel passo sarebbe arrivato giusto per la messa di mezzanotte e poi avrebbe ripreso, sciolto il voto della madre, la via del ritorno, senza attendere la corriera delle sei. Ora che «sapeva» non avrebbe potuto guardare in volto uomini del paese senza paura di riconoscere in qualcuno di essi. Tentato, tentato, anche se doveva alla mamma – da morta – come da viva, continuare a mentire. Lei non aveva parlato.

* * *

 Sua madre era sparita dal paese, quella notte di Natale, portando con sé il suo segreto e un nome ormai impastato di disprezzo. Vive ancora quell’uomo? Salvatore doveva crederlo morto. «Lo disprezzai e l’odiai», riudì, netta, la voce del povero cuore in delirio.

Doveva crederlo morto, una ombra senza quella orribile colpa.

«Mi fermai dopo una lunga corsa, in un ovile. Le pecore al chiuso, ma i pastori avevano acceso un grande fuoco, sedevano intorno e uno di loro ripeteva ancora la pastorale con la sua fisarmonica. Forse avevano vegliato tutta la notte, in onore del Bambinello ch’era nato. C’era un’aria tiepida, senza un filo di vento.

Come questa, poteva sedere anch’egli con i pastori, perché eccoli laggiù come vent’anni fa, intorno al fuoco. Ma continuò a camminare perché voleva giungere in tempo.

«Dopo vent’anni, rifaccio la via all’inverso», si disse. «Lei portava me, che volevano scacciare.»

«Mi aspettò nell’orto, nascosto, simile a un ladro, come ogni volta. Uno di quei ladri che di giorno si mescolano la gente per bene, stringono la mano ai galantuomini. Anche a me strinse la mano, quella notte, e vi mise qualche cosa nel palmo e, tenendomela a pugno, senza lasciarla, mi sussurrò in fretta: «Non c’è tempo da perdere, Maria. Bisogna che tu vada in città, subito dopo Natale. In città a liberarti.»

Forse quella città che mostrava in fondo alla pianura, una cintura di lumi tremolanti?

«Non aver paura, Maria. Ci sono stato questa mattina. È tutto combinato. Troverai l’indirizzo. Ti basteranno queste…»

Duemila lire per la sua vita e chissà anche per quella di sua madre. Cocenti lagrime bagnavano il viso di Salvatore Dalì, e i suoi denti si stringevano scricchiolando, come a serrare il disgusto che gli saliva dal cuore. Cercò la vecchia e logora borsa nell’ampia tasca del suo soprabito, l’aprì, vi ficcò la mano e afferrò il rotoletto, nel fondo. «No, Salvatore, no, quelli no, no, per prima devi offrirli. Non distruggerli. Bisogna darli al Bambino, per prima.»

I pastori lo chiamarono: «Vai alla messa?, ehi! Vai alla messa? Non arrivi in tempo! È suonata da tanto! Il Bambino è già nato, buon uomo, è già nato!»

Ma egli correva, con quel suo lungo passo elastico. Correva così come corse lei, all’inverso, ansimante e disfatta per allontanarsi di più, sempre di più. «Certo ti basteranno. Questione di giorni. Troverai una scusa. Tutto andrà bene. Ora devo andare. Mi aspettano per la Messa. Dopo, accomoderemo la faccenda».

In delirio si può raccontare tutta una storia che si è sempre taciuta e sepolta nel fondo dell’anima. Il delirio è come un piccone che scava, che scava e riporta su. Lui ricordava una per una le parole di sua madre. Esse fluivano simili alle acque di un fiume sotterraneo che ha trovato, finalmente, lo sbocco al mare.

«Entrai anch’io in chiesa, rimasi nel fondo. Avevo il pugno stretto. Fui sicura che non avrei potuto riaprirlo mai più. Sarei rimasta, così, per tutta la vita. C’era anche lui, ma non guardò mai dalla mia parte. Era bravo a mantenere segrete le sue cose. Bravissimo. Nessuno riuscì a sapere nulla. Straordinario. Ma, ormai, non doveva più nascondersi. Aveva chiuso per sempre ‘la faccenda con me’».

Le lunghe gambe di Salvatore  Dalì avevano divorato tanta strada e già le prime case del paese erano state sorpassate. Si spandeva nell’aria incredibilmente primaverile, un suono d’organo. Sì, Gesù era nato. I pastori lo sapevano. Essi lo sanno sempre quando nasce Gesù.

Ancora qualche passo. Dalla porta spalancata, la chiesa era un tripudio di luci. Lui si confuse tra la folla che usciva. La messa di mezzanotte era finita. Il Bambino era sceso nel suo Presepe. S’affrettò ad entrare. C’erano pochi fedeli che non badarono a lui. Contadini, ragazzi.

«Rimasi quasi sola e m’avvicinai al Presepe. Scorsi una vecchia accanto a me, inginocchiata, nel suo scialle, e due ragazzi che quasi non sapevano staccarsi. Anch’io non potevo staccarmi, perché stavo per dire addio al Presepe del mio paese. Gli darò il Tuo nome, Gesù, o quello di Tua madre se nascerà bimba. E Te lo porterò qui, se me lo lasci per tutta mia vita e lo proteggi. Io Te lo portero qui. Anche fra cent’anni…»

* * *

Il parroco era giovane e sembrava così sorpreso anche un po’ divertito. Questi americani, pensava, questi americani, talvolta sono un po’ come noi, dei grandi sentimentali. Avrebbe voluto chiedere tante cose, ma il giovane parlava poco. Si spiegava bene in italiano, ma non mostrava nessuna intenzione di prolungare il discorso. Non aveva detto che una frase sola: «Sono per il Bambino del Presepe. Sono venuto a sciogliere un voto.»

Allora il parroco si rassegnò e contò il denaro. Abbastanza.

«Ma questi due biglietti sono moneta nostra! E perché?»

Il giovane non rispose.

«Ditemi almeno il vostro nome per regolarità», chiese il parroco un po’ irritato.

«Non serve il mio nome. Il denaro è offerto da Maria Dalì, morta il mese scorso a Jefferson nel Missouri, Stati Uniti d’America. Ma nata qui, in questo paese.»

MIMINA TENORE

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Author: Geppe Inserra

1 thought on “Il viaggio, un racconto natalizio di Mimina Tenore, grande scrittrice dimenticata

  1. Bel racconto. Mi sono commosso, perché la stanzioncella mi ricorda quella di Rignano Scalo (già circoscrizione di Fg,). Anche a me è capitata un’avventura simile, riportata in un mio scritto ‘,romanzato’. Anch’io ritengo, come il compianto collega ed amico Ciccone, che autrice e racconti vadano riscoperti e pubblicati x le nuove generazioni. Sono gli anni post bellici dove il mondo cominciava a risollevarsi dalla miseria che regnava sovrana in tutta la Capitanata.

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