Il salentino De Viti De Marco e la battaglia contro il protezionismo

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Le tesi meridionaliste del salentino Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 30 settembre 1858, possono essere ritenute, per alcuni versi, la via moderata di passaggio da un meridionalismo liberale, incarnato da Villari, Franchetti, Sonnino, Fortunato, a un meridionalismo più democratico, che più tardi con Salvemini, Gramsci, Dorso segnerà lo strappo definitivo dalle pretese antipopolari e autoritarie della monarchica sabauda e dalla gestione illiberale dei governi conservatori dei primi quarant’anni unitari. Il transito quindi da un meridionalismo critico, ma piantato nell’alveo di governi fedeli alla dinastia sabauda dai labili e, spesso inapplicabili, principi di democrazia liberale, a un meridionalismo di rottura che prevedeva il netto superamento della monarchia e indicava la via di una nuova forma di gestione del paese, democratica, repubblicana, partecipata dalle masse popolari.

De Viti De Marco è sostanzialmente un liberaldemocratico, tanto che aderisce nel 1904, insieme a Francesco Saverio Nitti, al neonato Partito Radicale Italiano, l’ala più moderata e liberale della Sinistra non trasformista. Dal punto di vista economico è stato uno dei maggiori liberisti ed è in questa veste che sviluppa la sua polemica contro la tariffa doganale protezionista del 1887. Da questo punto di vista imposta il suo meridionalismo, portando avanti per primo la tesi che la protezione degli interessi industriali del Nord ha danneggiato irrimediabilmente l’economia e lo sviluppo del Mezzogiorno.

Figura 1. Antonio De Viti De Marco

De Viti De Marco, nonostante nella prima fase avesse visto nel fascismo una possibilità concreta di riforme e una barriera contro il pericolo socialista, diventa antifascista appena si rende conto che democrazia e libertà sono a rischio. Nel 1931 è uno dei diciotto docenti universitari che rifiuta, perdendo la cattedra, di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista come previsto dal decreto regio n. 1227 del 28 agosto 1931.

Il salentino, nato in una famiglia di grandi proprietari terrieri di origini nobiliari, consegue la laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1881 e, passando per le università di Camerino, Macerata e Pavia, giunge ad ottenere la cattedra di Scienze delle finanze nel 1887 proprio nella Capitale. Nel 1890, insieme ai fedeli amici economisti Maffeo Pantaleoni, conosciuto durante gli studi universitari, e Ugo Mazzola, acquisisce la maggioranza azionaria della nota rivista accademica Giornale degli economisti, diventandone condirettore.

De Viti De Marco non usa mezzi termini per contestare la tariffa doganale del 1887 che tutela degli interessi delle piccole e nascenti industrie del Nord, a discapito del mondo agricolo meridionale. Diventa sicuramente il capostipite della campagna antiprotezionista e del liberalismo economico, tanto che già nel 1891 pubblica sul Giornale degli economisti un articolo che precisa le sue posizioni denunciando un protezionismo che altera il corso dello sviluppo economico incentivando una politica che sacrifica il mondo agricolo più produttivo. Come rivela chiaramente lo storico Rosario Villari, riprendendo l’articolo dell’economista salentino, il protezionismo «devia i capitali e le energie dai settori più produttivi, instaura un rapporto privilegiato e parassitario tra produttori e consumatori nocivo alla vita economica e politica; aggrava e rende permanente, in particolare, lo squilibrio tra Nord e Sud» [1].

La tariffa protezionista del 1887, votata a larga maggioranza in Parlamento, aveva garantito con il dazio sul grano il silenzio e la complicità dei grandi proprietari latifondisti, ma aveva determinato un forte contrasto con gli altri comparti agricoli più intensivi e produttivi, innanzitutto con il settore della viticoltura, le cui esportazioni con la Francia erano entrate in una profonda e irrisolvibile crisi.

Per De Viti De Marco, che considera e condivide quanto scrive il direttore del Giornale degli economisti, Ugo Mazzola, sul «connubio tra protezionisti industriali e agrari» [2], il dazio sul grano è «il prezzo che i così detti ceti agrari, auspici gli on. Branca e Salandra» avevano ricevuto in cambio dell’appoggio ai «dazi industriali propugnati dagli on. Ellena e Luzzatti» [3]. Ma i dazi sul grano e sul riso, secondo l’intellettuale pugliese, erano inefficaci, in quanto la produzione di grano e riso era quasi sempre sufficiente al consumo interno, mentre la chiusura del mercato francese causato dalla tariffa doganale aveva comportato la caduta innaturale dei prezzi di olio e vino. Inoltre, l’applicazione della tariffa aumentava i prezzi dei manufatti prodotti in regime protetto dalle industrie del Nord che andavano a gravare soprattutto sul Mezzogiorno, oltre che sulle entrate dello Stato; infatti, «i produttori di grano, di olio, di vino, di riso, di bestiame, ecc., videro a un tratto falcidiato il loro reddito non solo in ragione della caduta dei prezzi agricoli, ai quali vendevano i loro prodotti, ma ancora in ragione dei prezzi industriali, ai quali compravano!». Per De Viti De Marco queste erano le due cause della «depressione economica cronica dell’Italia meridionale. L’una dovuta al protezionismo francese, l’altra al protezionismo italiano». Per l’economista salentino non vi erano dubbi: i maggiori prezzi dei manufatti industriali nazionali erano dovuti ai costi di produzione non competitivi di un’industria nazionale che riteneva poco produttiva. Le tariffe doganali avevano deviato «il capitale e il lavoro dagl’investimenti più fruttiferi», diminuendo complessivamente «la produzione nazionale e quindi la ricchezza privata del paese», da cui derivavano le entrate pubbliche [4].

L’Italia dei primi anni del Novecento – l’economista salentino veniva eletto in Parlamento nel 1901, rimanendoci quasi ininterrottamente fino all’avvento del fascismo – aveva appena superato il tragico ultimo decennio dell’Ottocento, tra conflitti sociali e risoluti tentativi repressivi e autoritari dello Stato. Le organizzazioni dei lavoratori si erano notevolmente rafforzate: nel 1891 nasceva a Milano la prima Camera del lavoro con funzioni di assistenza, tutela e rappresentanza, nel 1892 a Genova veniva fondato il Partito dei lavoratori italiani, dal 1895 Partito socialista. Francesco Crispi, l’ex garibaldino già capo del governo dal 1887 al 1891, oltre alla svolta protezionistica, si era decisamente orientato in direzione di prospettive politiche imperialistiche e colonialiste nell’intesa di rafforzare il blocco industriale-agrario dominante, concedendo il minimo possibile alle masse subalterne in termini di legislazione sociale. Tornato al governo nel 1893, dopo le brevi parentesi al governo del marchese Antonio Starabba di Rudinì (1891-1892) e di Antonio Giolitti (1892-1893), diversamente dalla moderazione di quest’ultimo nell’affrontare i conflitti sociali, Crispi si scagliava con violenza estrema contro il movimento dei fasci siciliani proclamando lo stato d’assedio in Sicilia, come in Lunigiana, e affidando la risoluzione del conflitto alla repressione militare e poliziesca. In perfetta continuità con la legge sulla pubblica sicurezza varata nel 1889, che prevedeva misure di limitazione della libertà quali la sorveglianza speciale e il domicilio coatto, oltre che restrizioni nell’ambito della possibilità di riunirsi e di esprimere opinioni, nel 1894, il governo Crispi emetteva provvedimenti contro le associazioni anarchiche e metteva in atto lo scioglimento del Partito dei lavoratori italiani e delle associazioni operaie. L’ex garibaldino era costretto alle dimissioni nel 1896, a seguito della sconfitta militare di Adua, orma indelebile del fallimento delle sue politiche imperialistiche. Tornava a capo del governo di Rudinì, il quale, scoppiati nel 1898 tumulti in tutta Italia generati dal malcontento popolare e dall’aumento del prezzo del pane, consegnava, in maggio a Milano, al generale Fiorenzo Bava Beccaris la facoltà di reprimere col sangue i tumulti, lasciando sul selciato centinaia di morti e feriti e portando davanti ai tribunali militari migliaia di contestatori. Niente affatto soddisfatti, prima di Rudinì, poi il suo successore Luigi Pelloux da fine 1898, tentavano di far approvare in maniera definitiva le cosiddette leggi liberticide, nonostante la forza delle proteste popolari e l’ostruzionismo dell’opposizione parlamentare dell’Estrema Sinistra (socialisti, repubblicani, radicali). Il tentativo reazionario della Destra si arrenava: a Milano alle amministrative del 1899 veniva eletto il radicale Mussi e alle politiche del 1900 il Partito socialista raddoppiava gli eletti in parlamento rispetto alle precedenti elezioni del 1897. Il 29 luglio a Monza re Umberto I°, che aveva decorato il generale Bava Beccaris per l’eccidio di Milano, veniva assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci. Con il governo Zanardelli del 1901 iniziava l’Età giolittiana, più disponibile a trattare i conflitti sociali con gli strumenti della politica e dell’economia [5].

In un noto articolo del 1898 [6], l’economista salentino spiegava le cause delle sommosse, represse con il sangue, con il disinteresse dello Stato verso i lavoratori e i ceti deboli, asfissiati dalle tasse e dal carovita, impoveriti dal protezionismo industriale, minacciati nelle libertà fondamentali, mai loro realmente riconosciute.

Nel 1904, De Viti De Marco incontrava nei banchi del Parlamento, eletto nel suo stesso partito, Francesco Saverio Nitti, il quale con il testo Nord e Sud [7] pubblicato nel 1900 aveva reso noto, studiati i bilanci dello stato dal 1862 al 1896-97, che la ripartizione della spesa pubblica in Italia era stata costantemente discriminante nei riguardi del Mezzogiorno e fondamentalmente tesa allo sviluppo industriale del Nord. Pur condividendo le cause che avevano portato nel giro del primo quarantennio unitario all’enorme divario economico tra le “due Italie”, i due economisti proponevano soluzioni diverse e confliggenti: Nitti, in stretti rapporti con Giolitti, suggeriva un forte impegno statale con leggi speciali volto all’industrializzazione del Mezzogiorno, De Viti De Marco, in sintonia con Giustino Fortunato, puntava tutto sull’eliminazione della tariffa doganale e su una riforma fiscale più favorevole all’agricoltura.

La fondazione a Milano, nel marzo del 1904, della Lega antiprotezionista, che metteva insieme socialisti, liberali, repubblicani, radicali e, persino, per poco tempo sindacalisti rivoluzionari, era l’occasione per ribadire posizioni pacifiste contrapposte a un protezionismo sempre più legato a tendenze nazionaliste e imperialiste, oltre che per iniziare una collaborazione con Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, che lo riterrà sempre il “Maestro”.

Lasciato nel 1911 il Partito socialista, Salvemini fondava L’Unità, un giornale che avrebbe avuto tra i propri collaboratori le migliori menti dell’epoca: Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Ettore Ciccotti, Gino Luzzatto, Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre ai giovani Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Il giornale avrebbe affrontato tutti i temi economici, sociali e politici del secondo decennio del Novecento, dalle questioni tributarie e fiscali alle riforme elettorali, dalla questione meridionale al protezionismo, dalla questione agraria all’emigrazione. De Viti De Marco vi giungeva nel 1912, dopo aver risolto i suoi rapporti con il Giornale degli economisti.

L’attività di De Viti De Marco, culturale nel Giornale degli economisti e in numerose collaborazioni, poi politica da deputato, nel 1929, per volontà di Umberto Zanotti Bianco e di Ernesto Rossi, è stata raccolta nel testo Un trentennio di lotte politiche 1894-1922.[8]

Michele Eugenio Di Carlo

Note

[1] R. Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°. Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 199.

[2] U. Mazzola, L’aumento del dazio sul grano, in «Giornale degli economisti», a. II, febbraio 1891, pp. 190-198.

[3] A. De Viti De Marco, Finanza e politica doganale, in «Giornale degli economisti», a. II, gennaio 1891.

[4] Ibidem, ora in Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp. 202-203.

[5] Si veda G. C. Jocteau, La lotta politica e i conflitti sociali nell’Italia liberale, in La storia. L’età dell’imperialismo e la I guerra mondiale, vol. 12, Milano, Mondadori, 2007, pp. 304-321.

[6] A. De Viti De Marco, Le recenti sommosse in Italia. Cause e riforme, in «Giornale degli economisti», a. IX, giugno 1998, pp. 517-546.

[7] F. S. Nitti, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo,1900.

[8] A. De Viti De Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma, Collezione di studi meridionali, 1930.

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Author: Michele Eugenio Di Carlo

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