Cristanziano Serricchio sulla Shoah: “Il silenzio dell’ulivo”, commentato da Luigi Paglia

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Cristanziano Serricchio non è stato soltanto una delle voci più importanti e alte della poesia pugliese, ma anche un intellettuale capace come pochi altri di declinare assieme alla poesia la capacità di denuncia e l’impegno civile. Lo testimonia il poemetto Il silenzio dell’ulivo, che Lettere Meridiane pubblica con l”approfondito commento di Luigi Paglia, che ringrazio per aver acconsentito alla pubblicazione.
La fotografia che illustra il post è stata scattata dallo stesso Paglia e documenta un momento importante della vita di Serricchio: l’incontro con il poeta Mario Luzi, in occasione della visita che il grande poeta fiorentino fece a Foggia il 30 aprile e l’1 maggio 1998.
Di Cristanziano Serricchio, Lettere Meridiane ha pubblicato il racconto  Il cucciolo di lana

* * *
Il silenzio dell’ulivo

Non hanno più colore i capelli di Auschwitz.

Fermo al non ritorno il treno dai finestrini sbarrati.

Capelli crespi, lisci, inanellati d’oro e d’ebano
un tempo nella luce dei giorni e delle stagioni,
canuti o grigi alle carezze tenere delle case
e di paesi lontani, alla dolcezza dell’ora
e del pianto dietro orizzonti di filo spinato.

Occhi sbarrati, cuori e infinite mani, tenere
mani di bimbi strappati alle madri, uomini
e donne spenti nell’immondo furore di gesti
e di parole slabbrate nei vasti campi di sterminio.

Nuvole di chiome senza più volti,
montagne di pettini senza più mani,
occhiali privi di sguardi e di riflessi,
valige con nomi stinti, vesti e bavette,
biberon e tazze, appena abbandonati.

Interminato strepitio di richiami,
labirinto di idiomi e di vicende,
reliquie di un mondo incenerito.

Solo, bianco su montagne di scarpe,
consunto uno zoccolo di legno, e nel silenzio
il passo fuggente di ragazza fiamminga.

Ma tu, Signore, ascolta e sorgi nel tuo sdegno.

Fino a quando tollererai, Signore, i fragili errori
dei superbi della terra e il dolore vasto del mondo,
attento al grido degli umili nei flutti della morte?

Smarriti udiamo per le strade scoppi di mitra
e schiocchi di fionde a sud e a nord d’ogni parallelo.

Un bimbo colpito s’accasciò alle spalle del padre
piegato in ginocchio. E accanto era la stella
del Messia, il calvario glabro della Croce.

Le tre anime della Città gridavano da sempre
le stesse voci che gridano in noi. Ma ovunque
incursioni e bombe, pietre e carri armati,
imboscate e kamikaze invadono le rovine.

Laggiù, ai piedi delle torri crollate, spento nelle lacrime
il grande fuoco, a stento bambini con le madri
tornano a scuola. La paura l’odio stringono
i cuori e le labbra al silenzio dell’ulivo,
da Hebron a Gerusalemme, dai dorsi scoscesi
del Kòssovo ai deserti irrigiditi dell’Iraq.

Minato è il cuore dell’uomo. Tra plumbee rupi
e cime di neve, rossa di sangue la Via della seta.

Fioriranno le rose del deserto lungo tutti
i fiumi e i mari, i monti e i piani della terra,
uniti mano nella mano gli uomini e le città,
i villaggi e le capanne al nascere del sole?

Un ponte rinasce a Mostar, pietra su pietra antica,
e l’arco di luce tra le sponde è il suono
dell’acqua lustrale, l’ansia amica del fiume,
la voce dei bimbi che corrono ai giochi.

Ai volti bruciati, alle donne trafitte, ai cuori
delle speranze deluse, ridona, Signore,
l’acqua dolce della quiete, e, nella vena più viva,
la vita agli unti del terrore, e l’amore ai farisei
impigliati in ragnatele di falsità e rovine.

Come al biondo re di Sion non offrirmi la fionda,
ma l’umile cetra delle parole, il canto dell’arpa,
il frullo d’ali nell’aria del mare e delle foglie.
Cristanziano Serricchio

* * *

Il silenzio dell’ulivo presenta i tratti di un’abbastanza marcata discontinuità   rispetto alla precedente produzione poetica di Cristanziano Serricchio, che è quasi sempre di registro lirico (anche se con qualche episodica diversione nel campo sociale e politico e con lo straordinario salto nel mito e nella protostoria delle Stele Daunie [1]) e di sviluppo compositivo generalmente più limitato, di fronte all’intensa poesia civile e di denuncia, e alle misure ampie ed avvolgenti del poemetto.
La discontinuità, originata dall’enormità delle situazioni e degli eventi denotati, si realizza a livello delle strutture formali (pur nella permanenza di alcune modalità stilistiche) sulla cui incisività e novità influiscono fortemente proprio il panorama tematico e la violenza dell’emozione suscitata dallo spettacolo tremendo dei campi di sterminio, barbara espressione della ferocia nazista, e delle guerre e  dei genocidi che insanguinano il mondo attuale (per cui, come scriveva Ungaretti in Mio fiume anche tu, una composizione anch’essa suscitata dalla violenta esecrazione delle deportazioni e delle nefandezze naziste nella seconda guerra mondiale, «con fantasia ritorta/ E mani spudorate/ Delle fattezze umane l’uomo lacera/ L’immagine divina/ E pietà in grido si contrae di pietra»).
La discontinuità è evidente a livello iconico, strofico e metrico  in quanto si individuano due modalità, che sembrerebbero contrastanti, riguardanti da una parte le misure minime delle strofe  (di uno, due, tre versi) e, dall’altra, l’ipermetria di quasi tutti versi, anche di diciotto, diciassette, sedici sillabe, con l’inserimento di pochissimi endecasillabi. In realtà, le due procedure sono in interconnessione, in quanto la risultanza a livello iconico  della prima modalità rivela la segmentazione, la parcellizzazione relative al mondo umano, dimidiato e frantumato, sia nelle componenti anatomiche sia nelle espressioni sociali e politiche, dagli stermini e dalle guerre;  mentre la seconda dà alla composizione una dimensione  iconica dispiegata in larghezza, quasi per  riempire tutto lo spazio delle pagine, per non lasciare nulla di vuoto (di non detto), per rimarcare tutta l’espansione dell’accorata, ma a volte anche violenta, poesia di denuncia (che ricorda quella pasoliniana riportata, però, su un registro profondamente cristiano), ma è anche segnale di estensione,  di globalizzazione –come si direbbe con parola di moda- del mondo unificato, nello spazio e nel tempo, dalla ferocia e dalla insensatezza dei «piccoli uomini feroci», in «quest’atomo opaco del male», come accusavano Pirandello  e Pascoli.
La raffigurazione del mondo “capovolto” nelle sue coordinate di valori  umani è correlativamente evidente anche a livello di intertestualità estesa, in quanto sono sintomatici la collisione, il rovesciamento, lo stravolgimento delle citazioni inserite in un contesto estremamente diverso: dall’universo naturale, libero, aperto, spalancato proposto dalle “fonti” letterarie al mondo ristretto, prigioniero, ritagliato e, comunque, negativo nel testo di Serricchio. Si va dai «capei d’oro all’aura sparsi» (Petrarca) ai   «Capelli […] d’oro e d’ebano un tempo nella luce», dalle «Nuvole […] rosee di peschi, bianche di susini» (Pascoli) alle «Nuvole di chiome senza più volti»,  dagli «interminati spazi» (Leopardi) all’ «Interminato strepitio»,  dagli «schiocchi di merli» e dallo «scoppio delle tue risate (Montale) agli «schiocchi di fionde» e agli «scoppi di mitra» dagli «orizzonti di oceani» (Ungaretti) e dagli «orizzonti della campagna» (Pasolini) agli «orizzonti di filo spinato».
Sul piano figurativo, la sintassi del negativo (della sottrazione, della divisione, della sparizione) viene esperita con la serie nutritissima delle sineddochi  o (con più pertinente linguaggio cinematografico,  perché relativo alla rappresentazione visiva) di primi piani e dettagli, sia di segmenti anatomici (capelli, occhi, cuori, mani, chiome), sia di  oggetti pertinenti al mondo umano (pettini, occhiali, valige, vesti, bavette, biberon, tazze, scarpe, zoccolo). La persistenza degli oggetti e la scomposizione di parti anatomiche, scorporate dall’unità della persona umana,  mettono in evidenza,  per contrasto, il connotato dell’assenza, della sparizione dell’umano.
Nel quadro generale delle figure di limitazione e di elisione, anche riferite alla retrocessione temporale  («Non hanno più colore i capelli di Aushwitz», «Fermo al non ritorno il treno dai finestrini sbarrati » , «Capelli crespi, lisci, inanellati d’oro e d’ebano/ un tempo nella luce dei giorni e delle stagioni»,  «Occhi sbarrati, cuori e infinite mani, tenere mani/ di bimbi strappati alle madri […]», «uomini/ e donne spenti nell’immondo furore dei gesti» «valige con nomi stinti […]», «biberon e tazze, appena abbandonati», «reliquie di un mondo incenerito»), che richiamano l’allontanamento, la scomparsa, la cancellazione, è da segnalare un meccanismo stilistico del tutto particolare. Infatti, il panorama tragico della sparizione viene elevato alla terza potenza dalla figurazione straordinaria fondata su una doppia sineddoche, ulteriormente collegata da monemi di sottrazione o privazione, rappresentati dalla serie di negazioni  e di disgiunzioni morfologiche e lessicali: «Nuvole di chiome senza più volti», «montagne di pettini senza più mani», «occhiali privi di sguardi e di riflessi». Facendo ancora ricorso al linguaggio cinematografico,  si può parlare di una struttura articolata su due dettagli, uno in praesentia («chiome – pettini – occhiali»), l’altro in absentia («volti – mani – sguardi»), raccordati, appunto dalle locuzioni di esclusione («senza – senza – privi»).
Continuando nell’accostamento dell’universo semiologico del poemetto al piano della visione filmica,  è da notare la serie di sequenze marcate da dissolvenze e l’alternanza dei predetti  primi piani o dettagli (relativi all’estesissimo catalogo di oggetti e di parti anatomiche) e di campi lunghissimi  o totali (le  torri crollate, Hebron e Gerusalemme, i dorsi scoscesi del Kòssovo,  i deserti irrigiditi dell’Iraq, i fiumi e i mari, i monti e i piani della terra, il ponte di Mostar).
La prevalenza  delle stratificazioni delle sineddochi sulle metafore (che, comunque, presentano un discreto numero di occorrenze), dichiara – secondo la formulazione di Jakobson  [2] – il tenore realistico (e tragico), rispetto a quello fantastico o simbolico rappresentato dalla dichiarazione metaforica. Inoltre, anche le metafore sono, in qualche modo, attratte nella dimensione metonimica, realizzando una visione espressionistica che si somma allo stravolgimento delle citazioni di cui ho parlato precedentemente. La violenta carica espressionistica delle metafore si riferisce alternativamente sia al veicolo [3] («Labirinto di idiomi», «reliquie di un mondo incenerito», «parole slabbrate»)   sia  al tenore («flutti della morte», «unti del terrore»), sia   ai due elementi collegati («ragnatele di falsità», «spento il fuoco nelle lacrime», «deserti irrigiditi»).
Anche sul piano macrostrutturale,  è evidente la semantica del negativo. L’individuazione degli elementi logico-semantici del poemetto squaderna l’universo tematico della composizione, il  quale si proietta nel sistema archetipico (ossia le «strutture psichiche quasi universali, innate o ereditarie, una specie di coscienza collettiva e si esprimono attraverso simboli particolari, carichi di una grande potenza energetica [4]» ) e si realizza figurativamente – come già s’è visto – nella serie metonimica e metaforica.
L’articolazione logico-semantica, secondo la formulazione del  quadrato semiologico prospettata da Greimas [5], presenta l’asse semico basilare costituito dall’antitesi guerra vs pace (relazione di contrarietà). Gli stermini e le guerre sono la tematica ossessiva, e del massimo impatto emotivo, del poemetto  la quale ha il virtuale polo di contrasto, spesso implicito, nell’aspirazione alla pace e all’amore nel mondo.
L’altro asse semico fondamentale è quello orientato sul dissidio morte-vita (relazione di subcontrarietà), complementare e consequenziale rispetto alla relazione guerra-pace. Come ho già notato, il tema della morte e della sparizione acquista nel poemetto la massima espansione, mentre quello della vita è presente sottotraccia, come aspirazione all’implicita conquista della realizzazione umana. È vero che al destino dell’uomo appartiene, secondo la formulazione di  Heidegger [6], «l’essere per la morte»,  ma come tappa terminale di un percorso esistenziale, non come brusca interruzione, tragica negazione dello spirito vitale.
I quattro termini del quadrato fondamentale, inoltre, realizzano, in posizione chiasmatica, anche delle relazioni di contraddizione:  la prima mette in luce l’irriducibilità della guerra alla dimensione della vita, mentre la seconda oppone, simmetricamente, la morte alla pace.
I rapporti di contrarietà istituiscono tra loro una relazione di contraddizione. Il superamento del contrasto sterminio-guerra vs pace può ravvisarsi nei due elementi che entrano tra loro in ulteriore rapporto di contraddizione: nello sdegno, in cui si proietta quello del poeta («Ma tu, Signore, ascolta e sorgi nel tuo sdegno»), e nell’amore  universale («ridona, Signore,/ l’acqua dolce della quiete […] e l’amore»), che sono ambivalenti espressioni del divino [7] , mentre la sublimazione dell’antitesi tra la vita e la morte è affidata alla discesa nella profondità delle fonti della vita da parte dell’umanità («ridona […] nella vena più viva, la vita agli unti del terrore»).
Inoltre, le due relazioni di complementarità (sterminio e guerra – morte, e pace – vita stabiliscono tra loro un ulteriore rapporto di contrarietà tra il ricorso alla violenza e invece la liberazione nella poesia («non offrirmi la fionda,ma l’umile cetra delle parole, il canto dell’arpa,/ il frullo d’ali nell’aria del mare e delle foglie»).
L’articolazione logico-semantica prospettata dal quadrato semiologico trova una perfetta coincidenza (o sovrapposizione) nel sistema simbolico  il quale è  organizzato in modo binario sui piani superiore ed inferiore ed è polarizzato sui versanti negativo e positivo. Infatti, l’archetipo appartenente alla sfera superiore  (fuoco distruttivo) e,  in rapporto di complementarità ed interdipendenza,  quelli della sfera inferiore (pietre, rupi, rovine, deserto) sono orientati sulla polarità negativa dell’infecondità e della distruttività. Mentre gli altri archetipi del sole e della luce, relativi al piano superiore, collegati a quelli del livello inferiore dell’acqua, dei fiumi, della vegetazione, rivelano la  polarità positiva della creatività e della vitalità.
Come si è cercato di puntualizzare, tutte le coordinate del significato e del significante del poemetto costituiscono un organismo compatto, interconnesso nei suoi molteplici elementi, ed hanno la logica conclusione e l’espansione nella prospettiva del tempo e dello spazio  che presenta un’articolazione straordinaria, in quanto l’ampiezza dell’arco temporale e spaziale (che si estende  dalla seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri, e che si riferisce ai campi di sterminio in Germania, alle guerre recenti nei Balcani, alla distruzione delle Torri gemelle di New York dell’ 11 settembre 2001, all’invasione dell’Iraq del 2003, al conflitto israeliano – palestinese, alla ricostruzione del ponte di Mostar del 2004)  viene realizzata  con la  sovrapposizione dei luoghi geografici e degli eventi,  con l’identificazione delle stragi e delle morti, determinate da un’unica,  perdurante vis  disumana e distruttiva, e con la designazione quasi di un presente dilatato o sospeso.  Infatti, la discontinuità dei luoghi e dei tempi  è riportata alla persistenza o, meglio, alla  coincidenza dall’uniformità tragica, ossia dall’evocazione della stessa tragedia in situazioni  così distanti, dalla sovrapposizione di orrori su orrori nell’orizzonte temporale ricondotto al presente continuo, nella fissazione del tempo.

Luigi Paglia

[1]  Cfr. Cristanziano Serricchio, Le Stele Daunie, con un saggio introduttivo di Oreste Macrì,  Manduria Lacaita, 1978, poi in Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti,  Roma, Editori e Associati, 1993.
[2] Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano Feltrinelli,1972, pp. 39-45
[3]  Cfr. I. A. Richards, La filosofia della retorica, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 92.
[4] Cfr. J. Chevalier, Introduzione, in J. Chevalier e A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano, Rizzoli, 1986, p.XIV.
[5]    Per il quadrato semiologico greimasiano, cfr. A. J. Greimas, Del senso 2, Milano, Bompiani, 1985, pp. 45-63 e 131–149.
[6]   M. Heidegger, Sein und Zeit, Tubingen, Max Niemeyer Verlag, 1927, trad. italiana, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1970, a c. di P. Chiodi.
[7]  Viene presentato il doppio aspetto della divinità: il Dio veterotestamentario  e il Dio dei Vangeli nelle connotazioni appunto, da una parte, della giustizia e dello sdegno, e, dall’altra, dell’amore, proclamato dal Cristo. Ritorna alla memoria una poesia di Ungaretti tematicamente orientata sulla doppia dimensione del divino: Senza più peso.

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Author: Geppe Inserra

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