Le parole delle donne sono rivoluzionarie (di Loredana Olivieri)

Print Friendly, PDF & Email

“Le donne che parlano restituiscono vigore e pregnanza alla comunicazione. La donne che parlano ridanno senso alle parole. Le donne che parlano ridanno fiato alla speranza. “

Il pensiero “forte” non tramonta con il passare del tempo, né cessa di essere attuale, di parlare alla contemporaneità. Loredana Olivieri scrisse queste riflessioni il 6 marzo 2013, all’indomani di una campagna elettorale molto tirata ma povera di contenuti, e alla vigilia di una Festa della Donna che si celebrò in un clima di particolare incertezza.

Con rara capacità espressiva e grande rigore analitico, Loredana prese in esame i numerosi episodi sessisti che si erano verificati durante la campagna elettorale, individuando nella comunicazione e nel linguaggio il terreno su cui avviare la rivoluzione rosa.

Da allora ad oggi molto poco è cambiato. Ma il pensiero di Loredana resta in tutta la sua energia, la sua forza, la sua prorompente attualità.

La ricordiamo e le rendiamo omaggio pubblicando il suo prezioso articolo. (g.i.)

* * *

La comunicazione ha una legge non scritta né codificata, in virtù della quale un messaggio risulta tanto più accattivante, quanto più corrisponde alle aspettative di chi lo riceve. Se le cose stanno così – e purtroppo stanno proprio così – mi sembra che la campagna elettorale che si è appena conclusa possa essere un ottimo osservatorio per affrontare la questione.

È stata un campagna “forte”, nei temi e nelle espressioni. Dico forte tra virgolette, nel senso che sono rimasti complessivamente defilati i deboli, le categorie di persone che, in una crisi profonda come quella che viviamo, avrebbero dovuto ricevere maggiore attenzione dalla politica. Quelli dei deboli, delle donne, del giovani, dei disoccupati, degli anziani, dei pensionati, delle periferie, dello stesso Mezzogiorno sono diventati temi essi stessi deboli e messi ai margini di un agone politico sempre più forte, brutale, violento.

È stata una campagna elettorale forte anche nelle espressioni, nel linguaggio. Non a caso, come scriveva qualche giorno fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera il turpiloquio è diventato una prassi della politica. La normalità della parolaccia è specchio di una politica malata, scriveva l’editorialista del quotidiano milanese, sottolineando che tra i campioni del turpiloquio non c’è soltanto Beppe Grillo, ma anche un insospettabile personaggio come Massimo Cacciari, filosofo e docente universitario.

Il sistematico ricorso alle parolacce come strumento di confronto politico è il sintomo di un linguaggio sempre più violento, che avvilisce la comunicazione civile.

In un siffatto contesto, non è difficile rendersi conto come e perché i temi femminili e della violenza sulle donne siano completamente scomparsi dalla campagna elettorale. Come donne, abbiamo fatto notizia prima della campagna elettorale, quando si discuteva di quote rosa e di maggiore rappresentatività di genere in Parlamento.

Quando il gioco si è fatto duro, e hanno cominciato a giocare i duri, i temi femminili sono finiti in secondo piano, ed è successo che se ne sia parlato – come ha osservato puntualmente Laura Puppato – soltanto per le consuete intemperanze di Berlusconi che prima ha fatto delle avanches in pubblico durante un comizio ad una lavoratrice, quindi nella trasmissione Un giorno da pecora ha dato sfoggio del linguaggio da caserma cui solitamente ricorre quando si tratta di parlare di donne.

E dunque, non soltanto in campagna elettorale non si è parlato della violenza sulle donne, ma le donne stesse sono diventate oggetto di battute volgari. Ma attenzione: Berlusconi è un grande comunicatore, non si comporta così in omaggio alla sua presunta indole di maschio, ma applica a menadito la regola non scritta della comunicazione di cui ho detto prima. Dice all’interlocutore quel che questi si aspetta di sentire: un ode al maschilismo, alla volgarità, al linguaggio da trivio che però si rivolge, facendo presa, alla maggioranza dell’opinione pubblica nazionale.

Protestando duramente nei confronti della performance dell’ex premier, Laura Puppato ha detto una cosa sacrosanta, sottolineando come “la prima violenza ha origine dal linguaggio”.

Non c’è insomma nulla da meravigliarsi, care compagne e care amiche. La violenza sulle donne non rappresenta un comportamento anomalo e deviante: è il portato, l’estrema, ma dolorosamente logica, conseguenza di un humus culturale fortemente sessista che ancora incombe sul nostro Paese. La campagna elettorale è stata l’ennesima occasione perduta, ma ha confermato l’urgenza e la necessità di una svolta autentica.

La politica malata che si affida al turpiloquio come strumento di confronto è lo specchio di una politica maschilista, che ha fatto il suo tempo.

Ma tutto questo avvilisce anche la comunicazione, la possibilità che la comunicazione svolga fino in fondo il suo ruolo più autentico, che non è quello di imbonire, di indurre a comprare un prodotto o a dare un voto, ma piuttosto quello di fare circolare idee, sentimenti, di mettere in circolo umanità.

Mi chiedo spesso cosa possa fare la scuola per  declinare nel suo linguaggio, nel suo modo d’essere, una prospettiva di genere.

È una domanda che resta sospesa nel vuoto, perché credo che nessuno di noi abbia in tasca la ricetta per affrontare il problema. So solo che non basta chiamare il sindaco donna o l’assessore donna o l’avvocato donna, sindaca, assessora o avvocata, anche perché il linguaggio non si impone per decreto legge, viene plasmato dall’uso.

So però che la comunicazione è intrinsecamente femminile. Nel senso che le donne comunicano meglio e più profondamente dell’altro sesso, ed allora, si tratta forse di restituire alla comunicazione la sua funzione perduta.

Qualche anno fa, un periodico popolare generalista, ovvero non specificamente femminile, svolse una indagine sulla posta che riceveva dai lettori. Il giornale riceve ogni anno 30.000 lettere e 25.000 telefonate di contenuto personale: il 75% sono donne che aprono un dialogo, esponendo problemi, sentimenti, e coinvolgendo gli altri  nel proprio cammino di vita.

Qualcosa sta cambiando, lentamente ma forse inesorabilmente, grazie alla rete ed al social network. Noi pensiamo ancora alla comunicazione di massa come inevitabilmente legata alle televisioni, che sono poi i media che maggiormente indulgono alla degenerazione del linguaggio ed alla comunicazione. A scoprire la capacità di produrre audience del turpiloquio è stata non a caso la televisione, compresa quella di Stato.

Sono particolarmente significative alcune statistiche secondo le quali le donne usano di più e meglio i social network rispetto agli uomini. Su Facebook, le donne sono il 58% ed addirittura il 64% su Twitter. Una prevalenza ancora più schiacciante si registra sul web: l’86 per cento dei siti ha più utenti di sesso femminile, che non di sesso maschile.

Negli Stati Uniti, il 51% degli utenti che aggiornano regolarmente il loro profilo è di sesso femminile, contro il 37% dei maschi. La percentuale vede le donne in vantaggio anche in Inghilterra – 49% contro 32% – e in Australia – 42% contro 31%. Netta prevalenza femminile si registra anche tra gli utenti dei social media che partecipano alle discussioni: in Inghilterra 63% di donne contro il 51% di maschi, 71 a 57 negli Stati Uniti.

Dall’indagine emerge anche un altro dato particolarmente significativo: il social network e la rete stanno cambiando le abitudini stesse delle donne. Le frequentatrici abituali di Facebook o di Twitter trascorrono meno tempo davanti alla tv (-36%), leggono meno magazine illustrati femminili (-36%) e meno quotidiani (-39%).

L’esplosione della rete e del social network sta producendo un fenomeno nuovo, per molti versi inedito: aggiunge la presenza e il linguaggio femminile al persistente e prevalente criterio maschile.

Rosangela Vegetti, esperta di comunicazione al femminile, commenta questo fenomeno con parole che devono farci attentamente riflettere: “l’irruzione dell’altro, del diverso, del femminile nella comunicazione fa cambiare radicalmente il dialogo; occorre rimettersi in gioco, ricomporre e modificare il quadro entro cui si colloca il messaggio dell’altro. Le modalità proprie con cui le donne si sono espresse e si esprimono vanno riconosciute e tenute presenti per un più ampio e profondo rinnovamento della vita sociale.”

È giunto il momento che non ci limitiamo più a chiedere che si parli delle donne.

È giunto il momento che le donne parlino e, parlando, rivoluzionino le regole di un gioco che le ha viste fino ad oggi sconfitte.

Le donne che parlano restituiscono vigore e pregnanza alla comunicazione.

La donne che parlano ridanno senso alle parole.

Le donne che parlano ridanno fiato alla speranza.

Loredana Olivieri

Facebook Comments

Hits: 0

Author: Redazione

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *