Come i foggiani giocavano a palla una volta (di Marco Laratro)

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Leggo sempre con gran gusto gli articoli che Marco Laratro scrive per “Il murialdino“. Questa volta, però, la sua penna si supera, proponendoci una deliziosa rievocazione dei giochi di una volta, tutti a base di palloni, palle e palline, quando la “pratica sportiva” era soltanto allegria e voglia di stare insieme, in una città che non offriva grandi opportunità di svago per i ragazzi. Bastava però aguzzare l’ingegno, e la soluzione era a portata di mano. Grazie al caro Marco per aver voluto consentire la pubblicazione dell’articolo che sicuramente susciterà tanti ricordi negli amici e lettori di Lettere Meridiane. Chi non ha mai giocato a pallone, a palla, o a pallucce? Buona lettura (g.i.)

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Non solo “mázz e busteche” e “mucciacòne”: erano il calcio e la palla la “coppia regina” dei giochi di strada, a Foggia (anni ’50 anche prima). Quando i palloni comparivano solo nelle partite ufficiali (li ricordo bene: di durissimo cuoio color marrò, camera d’aria rosata, serrata da un intreccio di lacci che lasciava il segno dolente di una “X” alla fronte di chi azzardava qualche colpo di testa), erano palle, pallétte, pallucce, palline di ingegnose fatture e dei materiali più vari a movimentare le nostre prime sfide e per strade o spiazzetti che entusiasmo e fantasia ci facevano trasformare in stadi prestigiosi. Palle di gomma e palloni “flex e superflex’ erano ancora di là da la venire. E nell’inconsapevole attesa, qualcosa di tondo da prendere a calci ce lo confezionavamo noi, magari rubacchiando alla mamma un gomitolo tondeggiante di lana già usata, cucendolo in una calza anch’essa vecchia e lisa. Morbido e leggero, aveva il vantaggio di non rimbalzare, di lasciarsi controllare agevolmente nei ghirigori di dribblings di un gioco tutto “rasoterra .

I problemi sorsero invece improvvisi, per noi “calciatori di strada”, con l’arrivo delle prime palle “americane”: di elastica bianchissima gomma, schizzavano da tutte le parti, con rimbalzi imprevedibili e folli, che rendevano problematico il controllo; e, sfuggendo perfidamente ad ogni goffo tentativo di ‘stop’, esponevano a mortificanti perplessità le ambizioni da campioni che ingenuamente ci sentivamo nelle gambe e coltivavamo nel cuore. Ma, prim’ancora del tipo di sfera da usare, c’era, a monte, un “problema dei problemi”: quello della ricerca di spazi, anche ristretti, per giocare.

Al giorno d’oggi, qui a Foggia, campi di calcio o calcetto non solo parrocchiali – anche comunali, aziendali, scolastici, privati – si trovano in ogni zona (tanti addirittura già in colpevole abbandono, ricoperti di erbacce e sterpaglie, inutilizzati, come quello del quartiere Cep, il “Pantanella” o il “Campo degli Ulivi”…): e partite e tornei si svolgono, alla luce dei riflettori, fino tarda ora. Ma allora, anche ben oltre gli anni eroici del dopoguerra, per i ragazzi foggiani il primo terreno di gioco era la strada. E, con un traffico rarefatto e due sassi piazzati come porte, tra asfalto e sterrati si accendevano interminabili contese: tanto infuocate da renderci insensibili alle pur legittime proteste degli abitanti di “grotte” e pianterreni, che al già rumoroso disagio dei nostri vocianti richiami vedevano aggiungersi il pericolo di trovare i vetri della porta-finestra d’ingresso infranti da qualche maldestra pallonata.

Se qualcosa o qualcuno poteva turbare le gesta dei giovanissimi calciatori, quelli erano i vigili urbani motociclisti. Pochi, ma puntigliosamente onnipresenti. Tutti uguali, come neri e spietati ‘robot della legge’, con casco e occhialoni, e corazzati in giubbotti di pelle, piombavano in coppia sui terreni di gioco con rombanti moto di servizio: e minacciando l’onta morale e pecuniaria di una terribile ‘contravvenzione’, si facevano consegnare la palla del peccato pedatorio e, col labbro piegato in un ghigno di sadico appagamento, bucavano la gomma, sgonfiando miseramente la sfera.


Per evitare ansie e mortificazioni, i ragazzini più “educati” preferivano sobbarcarsi a lunghe ‘trasferte’ a piedi; e in gruppo, si raggiungevano spazi periferici come quelli in fondo a via Galliani (certo più isolati: ma dove spesso le partite erano perfidamente interrotte dalle sassaiole dei piccoli ma già bellicosi abitanti della baraccopoli della zona) o lungo i più polverosi ma pacifici sterrati intorno al Cimitero. Eppure, lì, talvolta, la mesta quiete dell’ambiente era lacerata da qualche grido che non era d’esultanza per un gol. Tutt’altro. Succedeva che qualche vecchietta, uscendo a capo basso ancora contristata dopo la visita a tombe care, attraversava distrattamente il nostro estemporaneo campo di gioco: e alzando lo sguardo si vedeva attorniata dal movimento di una masnada di giovani e giovincelli, in tenuta da gioco, ma che a lei, candidamente digiuna di calcio, apparivano impudicamente in mutande. Di qui le sue scandalizzate rimostranze, con rimbalzi di sfottente “risposta” degli apprendisti-calciatori: che, anche se contrariati nel trovarsi intralciata un’ azione da gol dall’improvvido passaggio della nonnetta in gramaglie, riuscivano a stemperare il disappunto in qualche sportiva pernacchia.

Nei mesi estivi, poi, anche il grande campo dell’ “Opera San Michele” – finalmente deserto e silenzioso per la pausa dei campionati – offriva una prestigiosa e gratuita ospitalità ai ragazzini foggiani. Ci muovevamo in gruppi, anche da quartieri lontani: col pallone portato da casa davamo vita ad accese partite: col miraggio della soddisfazione di segnare finalmente qualche gol in una porta “vera”, con pali bianchi e la rete da gonfiare, e con le gambe infine annerite dalla ‘carbonella’ di un terreno spartanamente ancora privo di erbetta…

Con la palla, comunque, non sola calcio e calci, a Foggia, in quegli eroici anni di oltre mezzo secolo fa. Quando il tennis ancora uno ‘sport d’élite’, il calcetto tutto da inventare; e rugby e baseball illustri sconosciuti, solo il basket – la ‘pallacanestro’ – trovava qualche altro spazio d’interesse popolare tra gli sportivi. Storici parquets allora, il “campo dei Ferrovieri” e quello della chiesa di “Gesù e Maria”. Lì, nella squadra della “San Tarcisio”, fiorivano giovanili talenti all’ombra sorridente del ‘gigante buono’ Tommy Salvemini, per lungo tempo “il ragazzo più di alto di Foggia”, al quale la gente, con una punta di affettuosa invidia, chiedeva: “Che aria tira, lassù?”. Rammentiamo, a memoria, l’imberbe gagliardia del nostro Giovanni Picucci, che dagli aerei rimbalzi di un gioco da parquet è passato a proiettarsi, nella vita, a più elevati livelli manageriali, ed ora anche alla direzione del nostro piccolo ma glorioso “Murialdino”… E poi, Mimmo Verile (un ‘regista di basket’, che probabilmente meno immaginava di trarre da quella passione sportiva attitudini che lo avrebbero condotto un giorno alla “regia politica” del capoluogo, con la carica di “primo cittadino”). E, ancora, un biondissimo Tonio Paglia, futuro pluriassessore, con nome e fama legati anche allo storico impegno alla guida – per anni, in Capitanata – dell’ Associazione nazionale Vittime civili di guerra). E. infine, il “piccoletto” ma grintoso Pierino Pagliara, approdato poi, fra l’altro, anche al seggio di vice-sindaco a Palazzo di Città. Chi avrebbe mai pensato che da quella volonterosa e ristretta squadra giovanile parrocchiale un giorno si sarebbe formato un nucleo politico destinato a primarie responsabilità nell’ Amministrazione comunale? E pure da uno sport praticato con la sfera anzi, con una pallina – morbidamente dorata – proviene un altro sindaco di Foggia: Enzo Petrino, prematuramente scomparso anni fa… Appassionato di tennis, s’infortunò in una gara proprio alla vigilia dell’elezione. Che sofferenza, quando salì per la prima volta da sindaco per lo scalone d’onore del Comune! Col braccio ingessato al collo, non poteva neanche rispondere al saluto e agli abbracci di elettori e amici…

Il passeggero inconveniente di qualche infortunio sportivo dà l’occasione per rammentare a questo punto, come in un sapido ideale “ping pong”, detti e opinioni sulla figura e le proprietà della “palla”. Subito, da una parte, la diffusa credenza che, un po’ volgarmente, vede nelle forme sferiche un simbolo di buona sorte anche nella scalata alle… alte sfere della vita pubblica. Ma, con altrettanta orgogliosa convinzione, ecco invece spuntare – nientemeno, dall’antica saggezza latina – il celebre “quisque faber fortunae sue“, che attribuisce agli uomini il privilegio e I’ “orgoglio-dovere” di essere loro la ‘palla della fortuna’. Tutto chiaro, allora? Macché. Perché a controbattere all’impegnativa responsabilità di questo ruolo, ci si mette Thomas Dylan, con due versi di poetica scettica perfidia: “La palla che lanciai giocando, / non ancora è scesa al suolo“. Nell’…attesa, riaffiora alla mente un ingiallito quadretto di vita cittadina del dopoguerra.

A Foggia, piazza San Francesco era, allora, solo un grande spiazzo terroso; e, prima d’esser nobilitata dalla montagnola col monumento al Poverello, veniva usata come postazione per pullmans diretti ai paesi della provincia. Li, d’estate, tra i tanti viaggiatori in attesa, veniva il carretto di un venditore di fichidindia. E attorno, immancabilmente, era facile veder aggirarsi qualche giovane, robusto nell’aspetto e ancor più nell’appetito, che anche per cercar di saziarsi proponeva un allegro gioco-scommessa. Si lanciavano in alto, in rapida successione, dei fichidindia debitamente sbucciati; e il giovane, occhi al cielo, doveva esser pronto a coglierli al volo, nella ricaduta, tra le fauci spalancate.

Così, in qualche modo si sfamava, dando oltretutto prova di abilità nei riflessi scattanti. Aperta fra attesa sorriso, quella bocca forte e giovanile restava però ingenuamente ignara di un’amara verità: “L’uomo affamato non è libero“. Mai.

Marco Laratro

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Author: Geppe Inserra

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