L’anniversario è passato piuttosto sotto silenzio, ma cinquant’anni fa, il 15 luglio del 1969, la provincia di Foggia visse una delle pagine più importanti della sua storia civile, con la storica firma del Contratto di lavoro dei braccianti, dopo settimane di scioperi e lotte infuocate. Quel pezzo di carta sottoscritto dalle organizzazioni di categoria degli agricoltori e del coltivatori, dalla Federbraccianti Cgil, della Fisba Cisl e dalla Uil, diventò modello per i contratti del resto d’Italia. Allora non esisteva un contratto nazionale per i lavoratori agricoli. La provincia di Foggia era il punto di riferimento per il resto delle province pugliesi e italiane, e non a caso alle trattative che si svolgevano a Foggia partecipavano, più o meno tra le quinte, i dirigenti nazionali sia delle organizzazioni datoriali, che di quelle sindacali.
L’accordo, strappato dopo un’epica lotta, introdusse strumenti modernissimi nella relazioni aziendali nelle campagne: venivano istituite infatti le commissioni intercomunali, attraverso le quali i lavoratori potevano intervenire direttamente nelle scelte aziendali, e veniva prevista l’elezione di lavoratori in seno all’organizzazione aziendale, una sorta di consiglio di fabbrica applicato alle imprese agricole.
A volere ostinatamente quella innovazione era stata soprattutto la Federbraccianti Cgil, che, attraverso le commissioni intercomunali, si prefiggeva di consolidare ed espandere i livelli occupazionali nelle campagne, che cominciavano ad abbassarsi per effetto della meccanizzazione.
Qualche settimana prima, Cisl e Uil avevano sottoscritto un accordo separato. A protestare era rimasta soltanto la Cgil, ad oltranza. Lo scioperò durò 27 giorni, nel corso dei quali non mancarono momenti di grande tensione sociali e di protesta estrema, come l’occupazione della ferrovia a Trinitapoli e i blocchi stradali a Cerignola, ma anche episodi di grande solidarietà: nella cittadina di Di Vittorio, i piccoli negozianti vendevano a credito il pane ai braccianti, previo l’impegno che avrebbero corrisposto il dovuto dopo la firma del contratto.
Lettere Meridiane ricorda questa grande pagina di storia civile e sindacale con il racconto di uno dei protagonisti, Pasquale Panico, all’epoca segretario provinciale della Cgil, e successivamente senatore nelle file del Pci.
Di seguito il capitolo dell’autobiografia di Panico (Schegge di storia – Dalla vigna di Pavoncelli a Palazzo Madama, a cura di Carlo Inserra ed Enzo Pizzolo, Stoppie Editore, Foggia, 2009) dedicato al contratto dei braccianti 1969.
Il libro sarà integralmente pubblicato a puntate nei prossimi mesi.
Le foto che illustrano il post sono di Matteo Carella, e sono tratte dal suo grande archivio, impareggiabile serbatoio di memoria del movimento operaio e bracciantile in provincia di Foggia. Si ringraziano Stoppie Editore e Matteo Carella per aver autorizzato la pubblicazione.
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Tavoliere, baricentro di lotta e di cambiamento: il contratto dei braccianti del 1969
Ritengo che la lotta per questo contratto, e quella per il metano, abbiano rappresentato i momenti più alti della storia sindacale di quegli anni, e della mia segreteria alla Camera del lavoro di Foggia: furono giorni di lotta dura, appassionata, una vicenda che conferma ancora una volta che i lavoratori non lottavano soltanto per il pane, ma gli interessi di tutto il territorio.
Eravamo perfettamente consapevoli che si trattava di un contratto tutt’altro che facile: la piattaforma, preventivamente condivisa e sottoscritta da tutte le organizzazioni sindacali aveva alla base rivendicazioni fondamentali, come l’aumento del salario e dell’occupazione e l’istituzione delle commissioni intercomunali.
Il punto di rottura nelle trattative con le associazioni degli agrari furono proprio queste ultime, le commissioni intercomunali. Proclamammo subito lo sciopero che almeno inizialmente fu unitario. Ci rendemmo presto conto che sarebbe stato difficilissimo piegare la controparte.
Per dare un’idea di quanto fu aspra la lotta, devo ricordare che lo sciopero duro quasi un mese: ventisette giorni, che per lavoratori che vivevano soltanto del loro stipendio significava fare la fame. Un episodio, a Cerignola, mi impressionò moltissimo: i braccianti fecero un accordo con i piccoli negozianti per avere il pane a credito, da pagare poi quando, sottoscritto il contratto, avrebbero percepito gli assegni familiari. Grazie a questa solidarietà ed a quest’apertura di credito da parte dei negozianti, lo sciopero poté continuare.
Il momento più drammatico si raggiunse il 9 luglio. Eravamo in sciopero già da diversi giorni quando, nonostante avessero sottoscritto la piattaforma, e nonostante che anche i lavoratori da loro rappresentati fossero scesi in piazza a più riprese, per chiedere anche e soprattutto l’istituzione delle commissioni, Cisl e Uil firmarono il contratto dei lavoratori agricoli senza dare vita ad alcuna consultazione preventiva, e senza la parte che riguardava le commissioni.
Per noi si trattava, invece, di un obiettivo irrinunciabile. Le commissioni intercomunali nascevano dall’esigenza di unire alle questioni salariali, i problemi interni ed esterni alle aziende e per elaborare i piani aziendali. Per i lavoratori rappresentavano uno strumento di difesa del contratto e di tutela dal rischio di licenziamento. Quella rivendicazione, soprattutto dopo la sop- pressione dell’imponibile di manodopera, rappresentava una risposta fondamentale alla crescente disoccupazione. Le commissioni intercomunali, composte da rappresentanti delle aziende, dei lavoratori e delle istituzioni locali, dovevano determinare il numero di giornate necessario per ciascun ordinamento colturale, ed intervenivano nelle scelte colturali, in modo che si po- tesse passare dalle colture estensive che prevedevano un basso impiego di manodopera, a colture intensive, più remunerative sia per le imprese che per i lavoratori. Era inoltre prevista l’elezione di rappresentanti dei lavoratori all’interno dell’organizzazione aziendale, una sorta di consiglio di fabbrica applicato alle imprese agricole.
Nel formulare quella proposta, ci eravamo ispirati diretta- mente al Piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio, all’idea di un sindacato che si batteva per lo sviluppo e per l’interesse generale. Lo slogan che correva nelle aziende, tra i braccianti, sintetizza perfettamente la filosofia di quel contratto: «il lavoro si crea, non si trova soltanto.»
Quella piattaforma rappresentava un salto di qualità nelle relazioni sindacali nel mondo agricolo: lo sapevamo noi, lo sapevano gli agrari. Da parte nostra, attraverso quel contratto non volevamo più limitarci a difendere gli interessi di quanti erano nelle aziende, ma contrattare situazioni che potessero espandere e consolidare il lavoro nei campi. All’epoca a Cerignola c’erano 5-6.000 braccianti, ed a malapena in 1.500 trovavano lavoro presso le aziende agricole.
Per consolidare i livelli occupazionali in agricoltura era, perciò, necessario intervenire nelle scelte aziendali, per fare in modo che lo sviluppo dell’agricoltura giovasse non solo ai datori di lavoro, ma anche ai lavoratori e alla collettività. Ma tutto questo non garbava agli agrari che, fin dall’inizio delle trattative, si erano dimostrati fermi nel respingere la nostra rivendicazione.
Come ho già sottolineato, all’inizio anche la Cisl e la Uil avevano aderito allo sciopero, ma poi si erano piegate di fronte all’ostinata chiusura dei padroni. La firma separata del contratto da parte di Cisl e Uil, aveva ulteriormente peggiorato la situazione, indebolendo – come sempre succede quando i sindacati si dividono – il fronte dei lavoratori.
Provammo allora a rimediare alla rottura e a presentare comunque una piattaforma unitaria: chiedemmo a Bruno Mazzi della Cisl e a Michele Minchillo della Uil di sottoporre la decisione ai lavoratori, ma ci risposero che erano in grado di firmare loro, senza consultazione alcuna. Ci rendemmo conto allora che non c’era altra scelta, se non quella di andare da soli. Riunimmo i direttivi della Federbraccianti e della Cgil per discutere sul da farsi: decidemmo di tenere duro fino a quando non avessero inserito nel contratto le commissioni intercomunali. La Cgil continuò lo sciopero da sola.
Il 12 luglio decidemmo di prolungare ancora lo sciopero per altri due giorni, ma gli agrari non cedevano. Manifestazioni e cortei si ebbero a Carapelle, Stornara, Stornarella, Orta Nova, San Ferdinando, Margherita di Savoia e in altri comuni della Capitanata. Il nostro obiettivo era fermare la produzione e così oltre a picchettare tutte le aziende, per impedire episodi di crumiraggio, e per tenere uniti i lavoratori, creammo dei blocchi stradali sulla statale 16 e su tutte le principali arterie. Ricordo la tensione di quei giorni concitati, riunioni su riunioni, eravamo sempre all’erta. Era in noi ancora molto viva l’emozione per quello che era successo nel dicembre dell’anno prima ad Avola, quando durante uno sciopero molto duro dei braccianti, con picchettaggi e blocchi stradali, la polizia aveva sparato sui manifestanti uccidendone due e ferendone più o meno seriamente altri 48.
Per fortuna in provincia di Foggia non successe nulla, anche grazie alla mediazione dell’avveduto prefetto, Michele Di Caprio, che riuscì a non creare scontri gravi tra la polizia e lavoratori.
Un incidente di percorso, possiamo proprio chiamarlo così, capitò a Michele Magno, dirigente comunista nato a Manfredonia, storico del movimento sindacale e politico. All’epoca era deputato, come ho già ricordato parlando delle iniziative comuni che facevamo per informare i braccianti della liquidazione degli assegni familiari.
Michele aveva pensato di rendersi conto di persona della situazione. Ma i lavoratori non facevano sconti a nessuno e fu bloccato all’altezza di Cerignola. «Ma io sono dei vostri, io sono un deputato comunista.» E i lavoratori: «Benissimo onorevole, rimanga qui con noi a protestare.» «Ma io devo andare a Foggia, per parlare con Panico, la situazione è preoccupante.» «Onorevole, se la mette su questo piano lei non passa.» Dopo molto tempo, l’intervento di Moschetta consentì a Magno di superare il blocco e muoversi in direzione di Foggia. Il clima diventò più teso allorquando il Prefetto ci convocò chiedendoci di firmare il contratto, e di rinviare le rivendicazioni ad una piattaforma successiva. La lotta si era inasprita: il 14 luglio il traffico era rimasto completamente bloccato sulla statale.
A Trinitapoli fu occupato il Municipio e, per la prima volta, vennero anche fermati i treni. Esempio che fu seguito dopo poco a Cerignola. All’epoca la stazione di Cerignola era un importante punto di raccordo per i treni che andavano e venivano dal Centro e dal Nord Italia. Perciò, la decisione di fermare i treni ebbe conseguenze molto pesanti.
Allora la Prefettura si rese conto che gli scioperi proclamati dalla Cgil, coinvolgevano troppe persone per poter parlare di “frange isolate”, come avevano dichiarato la Cisl e la Democrazia Cristiana all’inizio dello sciopero, per minimizzarne la portata.
Bisogna dare atto a Di Caprio che diede dimostrazione di grande sensibilità. Nella notte tra il 14 e il 15 luglio convocò dunque tutte le parti sociali per ridiscutere il contratto di lavoro. Intanto erano trascorsi quindici giorni. La produzione era ferma, le strade anche, i lavoratori si sostenevano con una rete solidale, si davano i cambi e mangiavano insieme.
Una sera ero alla Camera del lavoro, quando mi chiamò il prefetto, preoccupato dal prolungato blocco alla ferrovia. Era l’una di notte. Di Caprio con molta diplomazia cercò ancora una volta di indurmi a dare il via libera alla rimozione dei blocchi.
«Signor prefetto, non è possibile. Lo sciopero non si può fermare, soprattutto per ragioni di ordine pubblico, se non quando le loro rivendicazioni saranno esaudite.»
La riunione decisiva con la controparte padronale era prevista per il giorno dopo alle 9. Quando arrivammo lì, ci trovammo di fronte tutto lo stato maggiore delle forze dell’ordine di Capitanata. Su mia richiesta nella sala riunioni rimanemmo noi dirigenti sindacali, i rappresentanti delle associazioni agrarie e il prefetto.
All’appello mancava solo Michele Minchillo, il segretario della Uil. Sapevamo che era in vacanza a Siponto e così il prefetto mandò una pattuglia della polizia a prenderlo. Quando vide arrivare i poliziotti nella sua casa di Siponto, Minchillo si spaventò: «Ma che cosa succede? Se c’è qualcuno che dovete arrestare quello è Panico, è lui che ha organizzato lo sciopero.»
«Ma no – replicarono i poliziotti – non dobbiamo arrestare nessuno ma la sua presenza è indispensabile per la riunione che si sta svolgendo in Prefettura.»
La riunione si concluse con una vittoria: le nostre rivendicazioni erano state accettate. Dalla Cgil chiamai Moschetta, il segretario della Federbraccianti di Cerignola. Era mezzogiorno: «È finita. Abbiamo vinto, l’accordo è stato firmato. I braccianti hanno vinto.» Le strade e i binari furono liberati nel giro di due ore.
Andammo a festeggiare alla campagna di Giuseppe Iannone, segretario provinciale della Federbraccianti che era stato in prima fila nell’organizzazione dello sciopero. Celebrammo la vittoria con un pranzo a base di anguille con le cicorie, che, nonostante l’accostamento mi parve una stravaganza, si rivelarono invece eccellenti.
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