Federalismo fiscale: ecco come il Nord ha truffato il Sud

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Uno scatto d’orgoglio in senso meridionalista, e non solo. La mozione sul federalismo fiscale presentata da nove consiglieri comunali foggiani, primo firmatario Marcello Sciagura (Italia in Comune) è dei più importanti documenti su cui il consiglio comunale di Foggia sia mai stato chiamato a pronunciarsi: perché il riscatto del Mezzogiorno non può partire che dai Comuni.
Avvertenza per l’uso: non si tratta della solita mozione, o della solita presa di posizione. Il lavoro di Sciagura è articolato, approfondito, ricco di dati, e punta senza mezzi termini l’indice contro la malaccorta prospettiva imboccata dal federalismo fiscale in salsa leghista: l’ennesima beffa per il Mezzogiorno, un’altra frustrazione per quanti (sempre meno, a dire il vero) si adoperano per il superamento del divario che contrappone le due Italie.
Colpisce lo spessore politica del documento ma anche la composita platea che lo sostiene. Si va da sinistra a destra: a firmare la mozione sono stati tanto consiglieri che orbitano nella maggioranza, quanto esponenti dell’opposizione. Con il primo firmatario Marcello Sciagura, hanno sottoscritto la mozione i consiglieri Vincenzo Rizzi, Pasquale Cataneo (questi tre anche firmatari dell’appello di Gianfranco Viesti contro il regionalismo differenziato che costituisce il logica e perverso approdo dello scellerato processo di federalismo fiscale sostenuto dalla Lega), Giuseppe Mainiero, Paolo Citro, Nicola Russo, Rosario Cusmai, Sergio Clemente e Saverio Cassitti.
Consiglio caldamente ad amici e lettori di Lettere Meridiane una lettura attenta e approfondita del documento. L’argomento è ostico, ma, come ha brillantemente spiegato Marco Esposito nel suo libro Zero al Sud, è proprio tra i tecnicismi e gli inghippi procedurali che si sono annidate le più atroci beffe per il Mezzogiorno.
La mozione di Sciagura e dei suoi colleghi in consiglio comunale trae le mosse proprio uno degli argomenti centrali del libro di Esposito: i criteri di ripartizione e di utilizzazione del “fondo di perequazione” che costituisce uno dei nodi più importanti della prospettiva di federalismo introdotta dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Formalmente, il fondo avrebbe lo scopo di attenuare gli squilibri che il federalismo fiscale si porta appresso fisiologicamente. In realtà, è successo l’esatto contrario: per il Sud, al danno si è aggiunta la beffa.

QUEL FONDO DI PEREQUAZIONE CHE NON HA PEREQUATO UN BEL NIENTE

A prevedere l’istituzione di un “fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante” fu la riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001. Qualche anno dopo, il ministro (leghista) per la semplificazione, Calderoli, varò i decreti attuativi della riforma e il Parlamento approvò la legge 42/2009 che – come si legge nella mozione – “ai più apparve equilibrata e rispettosa degli equilibri generali.” L’articolo 13 del provvedimento prevedeva l’istituzione di fondi perequativi, “la cui dimensione sarà pari alla differenza tra il totale dei fabbisogni standard per l’esercizio delle funzioni da loro svolte ed il totale dell’entrate standardizzate”.
Con l’approvazione dei decreti attuativi – ricordano Sciagura e gli altri firmatari – andavano però approvati anche i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) e gli obiettivi di servizio, cosa mai avvenuta.
E adesso viene il bello. Anzi, il brutto…
Scrivono ancora i consiglieri nella mozione: “Nonostante tale quadro normativo, nel 2015, in sede di prima applicazione del Fondo di solidarietà comunale con il meccanismo del confronto tra fabbisogni standard e capacità fiscale, l’ANCI e il Governo nella seduta del 31 marzo 2015 della conferenza Stato-Città ed autonomie locali decisero di ridurre il target perequativo dal valore integrale previsto in Costituzione al 45,8%.”
Va da sé che se un fondo perequativo viene arbitrariamente ridotto dal 100% al 45,8% non perequa più niente, e salta tutto il meccanismo di compensazione previsto costituzionalmente. Manco a dirlo, lo scippo perpretato ai danni del Mezzogiorno “in sede di prima applicazione” è stato puntualmente confermato e ribadito negli anni successivi.

LA TRUFFA ELEVATA A SISTEMA

“Tale decurtazione illegittima – si legge nella mozione – doveva valere solo per il 2015 ed invece, come spesso succede in Italia, rimarrà tale anche per il 2016. Addirittura dal 2017 quell’accordo del 2015 diverrà una legge. Infatti il comma 449 della legge di Stabilità n. 232/2016 prevede che: “L’ammontare complessivo della capacità fiscale perequabile dei Comuni e delle Regioni a statuto ordinario è determinata in misura pari al 50% c.d. “Target perequativo” dell’ammontare complessivo della capacità fiscale da perequare”. A questo punto appare chiaro che se la capacità fiscale da perequare deve coprire integralmente le funzioni assegnate, la stessa non può essere determinata nel 50% del dovuto. Tale situazione è stata motivo di attenzione anche nell’ultima legge di bilancio per il 2018 (legge n. 205/2017).”
Un autentico gioco delle tre carte, che ha duramente penalizzato il Mezzogiorno, sommandosi al danno prodotto dalla mancata determinazione dei LEP.
A questo punto giova aprire una parentesi per chiarire a quanti, come chi scrive, non sono addetti ai lavori che cosa sono questi benedetti LEP. L’acronimo sta per Livelli essenziali di prestazione, e tanto già basta a comprendere che si tratta in realtà di diritti. Tutti i cittadini hanno il diritto di ricevere dallo Stato servizi di qualità soddisfacente, particolarmente in ambito sanitario, sociale e formativo. Determinare i LEP significa dunque stabilire quali, quanti e servizi devono essere garantiti ai cittadini, e come, con quale livello di qualità.
Perché fino ad oggi non si è provveduto a determinarli? La risposta è semplice e disarmante. Una volta individuati i LEP è necessario anche determinare la necessaria copertura finanziaria. E se lo Stato non disponesse delle necessarie risorse? Dovranno essere azionati i meccanismi perequativi necessari per garantire che i territori più poveri ricevano gli stessi servizi di quelli più ricchi, utilizzando il gettito fiscale di quelli più ricchi. Che invece – come dimostra l’aberrante vicenda del regionalismo differenziato propugnato da Veneto e Lombardia, e sostenuto dalla stessa Lega – vogliono utilizzare i proventi delle tasse nei loro territori.
Approvati i LEP, sarebbe la fine del gioco delle tre carte e dei propositi di secessione dolce. Argutamente, nella mozione, Sciagura e gli altri consiglieri firmatari ricordano che lo stesso Giorgetti (Lega) quando era presidente del COBAFF (Commissione Bicamerale per l’Attuazione del Federalismo Fiscale) dichiarò: “senza i livelli essenziali delle prestazioni manca uno dei punti cardine su cui costruire tutto il sistema”.

LIVELLI ESSENZIALI DI PRESTAZIONE, L’ARABA FENICE

Ma, come abbiamo già detto, l’aspetto più interessante della mozione è che chi l’ha preparata non si è limitato alle proteste. Ha lavorato di fino, andando a cercare dati e numeri in grado di documentare la beffa operata ai danni del Sud e i danni prodotti dal “meccanismo perequativo” che come abbiamo detto non lungi dal perequare, aggrava piuttosto i divari.
Per dimostrare tutto questo, Sciagura ha messo a confronto i dati di due comuni meridionali – Altamura e Foggia – con quelli di due comuni settentrionali di pari dimensione e classe demografica – Imola e Rimini. Il risultato è a dir poco sconcertante.
A questo punto è il caso di riportare integralmente i passaggi del documento che illustrano con grande dovizie di dati come il federalismo fiscale si sta rivelando per il Mezzogiorno una grande truffa.

Il calcolo dei fabbisogni standard del Comune di Altamura per il 2015 appare penalizzante rispetto ad altri comuni con un’analoga popolazione (70.000 abitanti). Infatti in base ai dati di OPENCIVITAS sito del Ministero dell’Economia e Finanze, ad Altamura sono riconosciuti fabbisogni 3,3 milioni circa di euro sull’istruzione, 5,8 milioni di euro per i servizi sociali e 0 per gli asili nido; mentre a Imola (69.000 abitanti) i valori riconosciuti sono di 5,4 milioni di euro per l’istruzione, 7,8 milioni di euro per i servizi sociali e 4,5 milioni di euro per gli asili nido. Quindi il fabbisogno totale riconosciuto ad Imola è di 48,3 milioni di euro per cui il Comune romagnolo spendendone (spesa storica) 46 milioni di euro risulta essere un Comune virtuoso spendendo meno del suo fabbisogno; ad Altamura, con una popolazione numericamente analoga, viene riconosciuto un fabbisogno di 34,3 milioni di euro e con una spesa storica di 38,8 milioni di euro viene definito un Comune non virtuoso perché spende 4,5 milioni in più, anche se il suo fabbisogno standard è di 7 milioni di euro inferiore a quello di Imola. In sostanza Altamura, non avendo in passato creato asili nido per i figli dei sui cittadini, risulterà in quell’ambito che il suo fabbisogno, sarà assurdamente ZERO.

IL CASO FOGGIA-RIMINI

L’ altro esempio che vogliamo portare è quello della nostra città Foggia (151.000 abitanti, che ha aderito al salva-enti e pertanto in situazione di amministrazione controllata) il suo fabbisogno standard generale è valutato in circa 88 milioni di euro, la spesa storica ammonta a circa 111 milioni di euro, quindi con 23 milioni di euro di passività il nostro Comune non è assolutamente virtuoso e ha livelli di spesa molto alti (9 su 10). Per confronto viene preso il Comune di Rimini (148.000 abitanti circa) un quasi analogo numero di abitanti, il fabbisogno standard riconosciuto ammonta a 121.500.000 euro la sua spesa storica è di 150 milioni di euro, passività per 28,5 milioni di euro quindi anche questo non è un Comune virtuoso con livelli di spesa molto alti (9 su 10) . A questo punto è giusto capire perché il fabbisogno standard di Rimini venga valutato più alto di quello di Foggia di 35 ML di €, . Prendiamo anche qui in considerazione gli asili nido: Dati ISTAT, Foggia ha, al 1 gennaio 2018, un numero di bambini tra 0 e 3 anni di 3612 unità, Rimini al 1 gennaio 2018 ha 3504 bambini tra 0 e 3 anni, cioè un’età idonea ad usufruire del servizio di asilo nido. A questo punto ci aspetteremmo un uguale fabbisogno standard calcolato, per le due città, inerente a questo servizio, niente di più errato, Foggia gli viene calcolato un fabbisogno standard per questo servizio di poco più di 346.000 €, per Rimini il fabbisogno standard calcolato è di 4.852.481 €, questa assurda differenza è dovuto al numero di asili nido che sono presenti. Quindi non si tiene presente del numero di bambini che avrebbero diritto al servizio ma al fatto che se non c’è il servizio non c’è fabbisogno. A nessuno è mai venuto in mente che quel servizio ha un costo, purtroppo per contenimento della spesa quel servizio non si può dare. Questo avviene perché non sono stati fissati i LEP che avrebbero dovuto individuare una percentuale minima, di bambini, a cui dare il servizio. A dire la verità un’indicazione chiara era stata data, nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 marzo 2016 il dato individuato era il 12%, ma questo non ha indotto mai chi di dovere a approvare i LEP per gli asili nido con quella percentuale.

Quindi Foggia come molti Comuni del Sud percepisce un Fondo di Solidarietà Comunale ben inferiore a quello di cui necessiterebbe, per questo e anche per altri servizi.. La differenza è che il livello dei servizi ha un gradimento per Foggia di 1 su 10 quindi servizi scadenti, per Rimini il livello dei servizi ha un gradimento di 4 su 10, sempre insufficiente ma migliore di quello di Foggia. Differenza fondamentale che la spesa per ottenere quei servizi a Rimini e ai sui cittadini è costata 39 milioni di euro in più rispetto a Foggia. Alla luce di quanto esposto la spesa riconosciuta per i cittadini di Rimini è di 821,88 € anno rispetto ai 577,99 € di Foggia e tanti saluti alla Costituzione Italiana e all’art. 3 “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti la legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Lapidaria la conclusione cui pervengono Sciagura e gli altri consiglieri: “questa modalità di federalismo fiscale è del tutto illegale ed iniqua, e crea discrepanze sociali ed economiche tali da accentuare sempre più un ritardo di sviluppo di alcune aree rispetto ad altre.”
La mozione si conclude con la richiesta di “una rapida e più equa valutazione dei fabbisogni standard partendo finalmente dall’approvazione dei Livelli essenziali delle prestazioni spingendo affinché si parta da servizi del tutto equi per i cittadini delle varie realtà comunali, delle Regioni a statuto ordinario del nostro Paese. Tutto questo non può procedere in questa direzione per un futuro dell’Italia unita.”
Non resta che augurarsi che il presidente del consiglio comunale, Luigi Miranda (eletto in Forza Italia, ma nel frattempo approdato alla Lega) ponga al più presto la mozione all’ordine del giorno del consiglio comunale. Chissà che lo scatto d’orgoglio partito da Foggia non possa contagiare altre assisi municipali.
Perché una cosa va detta. Se la storia raccontata dalla mozione fa gridare allo scandalo, è altrettanto scandalosa l’inerzia e la sciatteria con cui gran parte della classe dirigente del Mezzogiorno ha affrontato la vicenda.
Come ha opportunamente documentato Marco Esposito, il giorno in cui in commissione è stato licenziato il “pacco” del fondo perequativo ridotto al 45,8% i parlamentari meridionali erano assenti. Tra i presenti, il deputato che abitava più a sud era un bolognese.

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Author: Geppe Inserra

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