Il mio amico e maestro Luciano Emmer mi ha insegnato che, se non riesci a fare un film, puoi sempre raccontarlo. Perché prima del cinema ci sono le storie, e non ci sarebbe il cinema senza una storia da raccontare.
È il caso de L’istante della caduta, il film sperato, inseguito, sognato da Lucio Dell’Accio sulla vita e sull’arte di Lorenzo Scarpiello.
Leggendo gli articoli dedicati da Lettere Meridiane al geniale artista pugliese, in occasione del centenario della nascita, Dell’Accio ha ritrovato il testo di una intervista concessa a Sergio Imperio, pubblicata dal settimanale Protagonisti il 24 luglio 1999.
Abbiamo convenuto di riproporla, in una edizione sensibilmente rinnovata ed ampliata, arricchita da una parte cospicua e di grande interesse, del ricco corredo iconografico e documentale che Lucio aveva raccolto a supporto del film.
L’idea di un film su Lorenzo Scarpiello venne condivisa da numerosi intellettuali ed artisti che sottoscrissero un appello, che rimase purtroppo inascoltato. Non si reperirono i finanziamenti necessari, e il progetto non andò in porto.
L’intervista, revisionata ed ampliata da Lucio Dell’Accio, costituisce non solo una sorta di sceneggiatura raccontata de L’istante della caduta, ma anche il documento più completo che sia stato scritto sulla vita e le opere di Lorenzo Scarpiello e sul suo rapporto con la città di Foggia. Potete leggerla di seguito. Domani, in un ebook scaricabile, pubblicheremo anche l’appendice e la cospicua documentazione artistica e iconografica resa disponibile da Dell’Accio, che ringraziamo per la sua disponibilità.
Buona lettura.
Geppe Inserra
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PROTAGONISTI 24 LUGLIO 1999
LE IDEE cinema/progetti
L’esperienza aggregativa gli diede l’opportunità di “non sentirsi don Chisciotte solitario contro una schiera sterminata di nemici”, come scrisse in una recensione ad una sua mostra del 1975, Guido Pensato. Il nemico di allora era il provincialismo becero e reazionario di una città del Sud. La nostra, che troppo spesso dimentica i suoi protagonisti relegandoli nell’angolo dell’oblio. Ma la parabola di Scarpiello torna prepotentemente alla ribalta attraverso i ricordi di quanti lo hanno conosciuto e inevitabilmente amato. Lucio Dell’Accio li ha incontrati tutti e ne ha tratto l’impulso a raccontare, a rendere una storia che diventi storia condivisa da una intera comunità, poiché è una storia che ci appartiene. Una vicenda che chiede di vivere tra attrazione e fascino, come cifra di un rendiconto di un’intera generazione che è stata testimone del fallimento del boom economico, della contestazione giovanile, delle grandi lotte operaie, gli inizi della strategia della tensione che portò agli anni di piombo. Ma i racconti dei testimoni portano anche ad una ricerca d’altro: di se stessi, del passato, del proprio doppio, dei giorni della gioventù, dei rapporti con il proprio luogo natio, della fuga da esso e dell’immancabile ritorno. Il film che Dell’Accio vuole realizzare sarà giocato soprattutto tra conversazioni e pensieri, mobilissimi anche nei percorsi cronologici. Un andare alla ricerca di un personaggio che punti più a far avvertire che a dire, negli occhi e nella mente, una vicenda che è poi simile alla vicenda di molti di noi.
Lucio Dell’Accio crede molto in questo progetto e lancia un appello a quanti sono sensibili alle vicende artistiche e culturali della città, affinché si possa realizzare il film dedicato a Lorenzo Scarpiello, un’operazione culturale di indubbio valore.
Lorenzo Scarpiello
Intervista al regista Lucio Dell’Accio
L’istante della caduta
“Parto dall’istante della caduta, dell’angoscia, del dolore, del terrore dell’amarezza della contemplazione, della solitudine, del vuoto, del nulla, dell’improvviso, della protezione, del certo, della meditazione, dell’affetto, per giungere a un risultato che è solo spettacolo dell’uomo colto con durezza e con freddezza, con assenza di commozione.” Con queste parole Lorenzo Scarpiello descrive in maniera precisa la sua idea dell’arte. Un uomo ed un artista non facilmente collocabile, né tanto meno di facile lettura. Cosa ti ha spinto a volerlo raccontare?
L’idea di questo film nasce durante un viaggio. Percorrevo in macchina una strada del Subappennino, verso il tramonto. Ero con un amico, Filippo Zanni, musicista e architetto. Stavamo attraversando un paesaggio aperto, una distesa di campi riarsi. C’era un cielo solido e la luce declinante saturava i colori e le forme del paesaggio. L’immagine mi ha ricordato i quadri di Scarpiello, quei suoi paesaggi crepuscolari densi di sfumature cromatiche e di assenza. Lo dissi a Filippo, che mi raccontò di aver conosciuto bene Lorenzo, a cui era legato da una profonda amicizia. La coincidenza, quella singolare sincronicità tra un mio ricordo e una parte del passato di Filippo che non conoscevo, mi colpì. Continuammo a parlare di Scarpiello. Ricordò in particolare un episodio che risale all’ottobre del 1986. Filippo passava con la sua compagna, Nives, sotto lo studio di Scarpiello, in corso Vittorio Emanuele, e improvvisamente sentirono applaudire. Alzarono lo sguardo e lo videro, affacciato al balcone che li applaudiva e sorrideva, come dal palco di un teatro. Applaudiva perché passavano abbracciati, perché erano presenti e vicini, prossimi a sé e ai suoi sguardi, e forse alle figure che probabilmente stava dipingendo o immaginava di dipingere in quel momento. In questa scena c’è tutto Scarpiello, è l’inizio perfetto di questa storia. Ho deciso in quell’istante che volevo fare il film. Così mi sono messo a cercare tutti quelli che l’hanno conosciuto.
Tu lo hai conosciuto?
Non personalmente. Ma è un’immagine ricorrente nella memoria, soprattutto certe forme dei suoi quadri. I miei primi ricordi risalgono all’epoca delle scuole elementari. Scarpiello insegnava alla scuola elementare “Garibaldi” di Foggia, che io ho frequentato negli anni ’60. Era molto amico del mio maestro, Mario Del Viscio, che gli fu molto vicino nel corso della sua avventura artistica. Li vedevo spesso insieme. Del Viscio fu tra i promotori del Teatro Club di Foggia, dove Lorenzo Scarpiello scoprì la pittura. Fu proprio Del Viscio a comprargli pennelli e colori per cominciare, in un momento difficile della vita di Scarpiello. Lo ricordo anche molto tempo dopo, all’epoca dei miei studi universitari, davanti al suo ultimo atelier in Vico Teatro, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Lo vedevo spesso fuori a fumare, fissava sempre intensamente qualcosa. Erano incontri en passant, che vivevo con uno spirito diverso rispetto ai tempi dell’infanzia. Conoscevo i suoi quadri. In quegli anni cominciavo a pensare di fare dei film. Lo vedevo (ma è ancora così) come un personaggio rilkiano, un Malte meno giovane rispetto al personaggio di Rilke, un solitario flâneur che vaga per la città in cerca di esistenza, di vissuti e di affetti, ma trova il naufragio. Ho avuto spesso l’impulso di conoscerlo, di entrare nel suo studio per vederlo dipingere, ma non l’ho mai fatto e non mi spiego perché. Adesso, però, mi sembra un vantaggio, una specie di posizione privilegiata dal distacco critico e dalla curiosità che sono necessari per esplorare senza limiti una vita ignota, per navigare liberamente in un arcipelago totalmente estraneo. Forse se l’avessi conosciuto non avrei questa spinta a cercare, sarei legato a quella parte di Scarpiello che avrei conosciuto tanto tempo fa. È quello che ho notato un po’ in tutti i testimoni incontrati. Ma è anche naturale che avvenga. Nei nostri rapporti, siamo tutti inclini a farci un’idea degli altri, per forza di cose frammentaria e incompleta, un’idea a cui finiamo fatalmente per assuefarci e che col tempo diventa un ostacolo alla scoperta.
Com’era come maestro?
Un suo ex alunno lo ricorda estremamente vivace, ricco, inventivo. Cosa che, come è facile immaginare, lo rendeva abbastanza scomodo per molti colleghi e per il suo preside che pare gli affidasse sempre gli alunni più difficili e più poveri. Scarpiello usava metodi didattici molto innovativi per l’epoca. Fu tra i primi a creare una biblioteca di classe, raccogliendo libri tra amici e parenti. Organizzava visite nei laboratori artigianali della città (come la sartoria di via Dante di Michele Lombardi, che è stato anche un collezionista d’arte molto attento agli artisti foggiani, che mi ha raccontato molte cose interessanti su Scarpiello), per far vivere agli alunni fondamentali esperienze di percezione e di crescita che sono rimaste impresse. Era in sintonia con la temperie culturale e pedagogica dell’epoca. Soffiava il vento della scuola di Barbiana e della pedagogia creativa di Gianni Rodari e di Bruno Munari, per fare alcuni degli esempi più rimarchevoli. Ma c’erano state prima le fondamentali riflessioni di Antonio Gramsci sulla scuola italiana, e aveva circolato nel dopoguerra anche il “diario di un insegnante” di Pasolini, in cui il poeta meditava sulle sue esperienze di insegnamento in Friuli, soprattutto sull’insegnamento della poesia, mentre contemporaneamente elaborava la sua poetica letteraria e cinematografica.
Stranamente Pasolini è comparso spesso nei racconti delle persone che ho incontrato. L’episodio più rivelatore me l’ha raccontato Vera, la figlia di Lorenzo Scarpiello. Nel novembre del 1975 lessero insieme sui giornali la notizia dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini e ne parlarono a lungo. Vera ricorda in particolare che suo padre la esortò a non giudicare. “Ogni uomo è inconoscibile”, le disse. La profonda verità di quelle parole coincide con una scoperta che si rivela progressivamente mentre ripercorro la sua storia, e l’inconoscibilità è la verifica flagrante di questa avventura dell’immaginario che sto vivendo. Quelle parole hanno aperto una strada importante e si stanno radicando nella mia ricerca. Nel corso della sua costruzione, il film da fare è sempre più segnato da un doppio orizzonte che sorregge le intenzioni di fondo. Voglio girare un film sul ricordo, per far conoscere un’artista dimenticato di questa città, ma più profondamente punto all’“inconoscibilità”. Un’endiadi difficile da comporre: la conoscibilità di un artista, l’inconoscibilità di un uomo.
Nella ricerca che hai effettuato, cosa hai potuto ricostruire biograficamente sulla sua vita?
Immagini non sempre a fuoco e con contorni definiti. Storie molteplici, sentieri da percorrere, altri impercorribili perché si perdono nell’ombra. C’è un’altra delle sue dichiarazioni che trovo stimolante, mi sembra anche una chiave di lettura della sua vita e della sua opera: “Solo l’ombra risponde al mio appello”. Lo scrisse per il catalogo della mostra del ’75 alla Galleria Agorà di Foggia. C’è qualcosa di noto in un pensiero simile, l’aura del viandante che dialoga con la sua ombra, che sembra provenire da Nietzsche. O che almeno porta in quella direzione. Scarpiello era un personaggio errante, il suo è stato un nomadismo un po’ donchisciottesco tra città e affetti, alla ricerca di volti e di forme che poi finivano nei suoi quadri. Gino Zanni, che lo ospitò per un breve periodo a Milano, mi ha raccontato che spesso provocava reazioni estreme per studiare le espressioni del volto che poi dipingeva. Un altro caro amico, Pino Tibollo, in una lunga chiacchierata a telefono, mi ha detto che Lorenzo si divertiva a mettere nei suoi quadri le persone che conosceva, e poi il gioco diventava quello di riconoscere a chi alludevano le sue figure.
Cos’altro hai potuto ricostruire della sua vita artistica?
Innanzitutto l’esperienza al Teatro Club, negli anni ’60. Ho incontrato Guido Pensato e Mario del Viscio, che furono tra i fondatori dell’associazione e lo hanno seguito fin dai suoi esordi nel mondo dell’arte. Alla fine degli anni Sessanta Scarpiello arriva al Teatro Club (fondato nel 1965) e sollecitato dall’ambiente scopre il suo interesse per la pittura. All’epoca il Teatro Club era un luogo di aggregazione importante, dove si elaboravano e si vivevano quegli stimoli artistici e culturali che animavano moltissimi centri europei: lo scardinamento dei vecchi assetti politico-culturali e l’affermazione delle neoavanguardie e del postmodernismo. Aveva sede nel Palazzetto dell’Arte di via Galliani, dove sono passate tante generazioni e che è stato teatro di gran parte degli eventi culturali e politici della città. Pensato mi ha raccontato che presto la pittura si impossessò totalmente di Scarpiello, diventò una specie di magnifica ossessione. Parlava moltissimo di pittura e teatralizzava l’atto stesso del dipingere. Al Teatro Club dipingeva in pubblico. Il teatro è un segno evidente, una peculiarità di molti suoi quadri. I Due Clown musicisti, per esempio, tra le poche figure “gaie” dei suoi quadri (nonostante i personaggi spettrali e poco rassicuranti che si affollano sullo sfondo), è un quadro in cui la dimensione teatrale della sua pittura è evidente, e sembra rimandare a quelle sue performances al Teatro Club.
E prima dell’arrivo al Teatro Club?
Qui il racconto di sua figlia Vera è fondamentale. Scarpiello nasce il 24 settembre 1920 ad Anzano di Puglia. Suo padre era un commerciante di cavalli. Durante la prima infanzia Lorenzo perde suo padre e finisce in un orfanotrofio. Diversi anni dopo, arriva a Foggia per frequentare l’Istituto Magistrale. Durante la Seconda guerra mondiale parte per il fronte, combatte in Albania e in Grecia e viene ferito. Una ferita grave che lo costringe all’applicazione di una placca d’acciaio alla nuca. Al fronte contrae anche una forma di pleurite che poi sarà la causa di molta della sua sofferenza e della malattia polmonare che lo afflisse per tutta la vita. Vera mi ha parlato molto degli amori giovanili di suo padre. In particolare di una ragazza che si chiamava Magda, che morì di leucemia. Spesso Lorenzo ne parlava in famiglia per far ingelosire sua moglie, e ci riusciva benissimo.
Il suo approccio alla pittura fu da autodidatta?
Come dicevo fu un’esplosione improvvisa. La pittura fu una strada in luce, tra tante altre in ombra, che si è coniugata con il suo fortissimo bisogno di rapporti umani. Eleonora Frattarolo (che ho incontrato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove insegna), che ha frequentato Scarpiello negli anni ‘70, mi ha detto che lui ripeteva continuamente a tutti quelli che andavano a trovarlo: “Non mi mancate”. Chiedeva la costante presenza degli amici, desiderava non perderli. Anche Davide Leccese (preside dell’Istituto Magistrale “Poerio”) ha un ricordo simile. Durante il nostro colloquio mi ha detto: «Lorenzo mi ripeteva sempre: “Parlami perché ho bisogno di parole, di ubriacarmi di parole. Perché solo così riesco a mettere sulla tela quello che sento”». L’amicizia è stata una cifra potente della sua vita.
Un grande contrasto con quello che dipingeva. I suoi quadri tradiscono una grande solitudine, quasi un distacco dal mondo che lo circondava…
Questo è molto vero. Molti suoi lavori esprimono un’intensa inquietudine, sono la messa in scena di una discesa agli inferi popolata di personaggi terribili e di luoghi inabitabili. Una “catabasi” in cui non è sempre facile seguirlo. Italo Mancini, ordinario di Filosofia Teoretica all’Università di Urbino, ha scritto che i suoi quadri sono dominati da uno “spavento esistenziale” che spietatamente denuda l’esistenza. Ci sono molti quadri in cui spiccano figure inquietanti e sformate, con mani abnormi e ferine che brandiscono clave immani, che sembrano rimandare ai “bestioni” di Vico, ad un primordiale “erramento ferino” in paesaggi da incubo. I personaggi dipinti da Scarpiello attraversano il momento più terribile della propria vita. Però c’è anche altro: Don Chisciotte e i Due Clown musicisti, che sono le opere che prediligo, sono figure piene di malinconia, ma anche di leggerezza e umorismo. E poi ci sono quei suoi ripetuti tramonti, che ha regalato a tantissimi amici. Sono quadri che esprimono levità e quiete. Sono un segno diverso, una specie di apertura, di luce per vedere l’abisso. “Ci sono sempre altri crepuscoli, altra gloria”, come dice un verso di Borges.
Dal racconto dei testimoni che personaggio è venuto fuori?
Lorenzo Scarpiello è, come ogni uomo, un intricatissimo labirinto. I diversi racconti dei testimoni si intrecciano, spesso divergono o si contraddicono. Per esempio, sulla sua morte. Guido Pensato è convinto che sia morto durante un’escursione nel bosco di Rignano Garganico, e che fu Tonino Del Vecchio a trovarlo. A sua volta Del Vecchio racconta che Scarpiello morì in casa sua, dopo una notte passata in piedi. La sera prima aveva aiutato il figlio di Del Vecchio a studiare matematica. Nei giorni precedenti aveva anche scritto una poesia. All’alba, verso le cinque, morì. Una personalità “policroma”, come le sue tele. Scarpiello appare come un caleidoscopio, ed è questa multiformità che voglio filmare. Voglio anche raccontare i momenti allegri, come il viaggio avventuroso con Mimmo Signoriello e Flora Martelli verso Reggio Emilia, per una mostra personale. Ci andarono con una Fiat 500, con il sedile posteriore ingombro di quadri tra i quali Scarpiello cercava di tenersi in equilibrio. Sulla strada furono fermati da una pattuglia della polizia (Signoriello ne ha parlato come di “poliziotti pasoliniani”) che si divertirono molto a vedere la scena e li lasciarono proseguire. Mi piacerebbe, inoltre, poter ricostruire le mostre che aveva in programma e non è riuscito a realizzare, come quella a Parigi.
Ha già un titolo il film?
Il titolo provvisorio è L’istante della caduta. Lo sto usando in fase di sceneggiatura, ma penso che resterà. L’espressione è tratta da una sua nota che dice molto sull’essenza della sua pittura. È un’ “Autopresentazione” scritta per una mostra al Teatro Club, ma usata anche per la mostra del 1971 alla Marguttiana di Roma (c’è da qualche parte anche un servizio della RAI su quella mostra, che spero di trovare). Probabilmente userò anche un sottotitolo: Frammenti di vita di Lorenzo Scarpiello. Ma non sarà soltanto la vita dell’artista ad essere protagonista del film. Scarpiello è anche rappresentativo di un’epoca della nostra città, quasi un simbolo. Anche di questo è necessario raccontare, degli ultimi trent’anni della città, delle sue trasformazioni culturali, ambientali, antropologiche. Partire dalla sua avventura artistica ed esistenziale per arrivare al presente, il presente dei narratori di questa storia, per ricostruire quel volto della città, sfigurato o scomparso, ma che ritorna attraverso il volto e le opere di un pittore, i volti e gli occhi di chi lo ha conosciuto, le tante storie che si sono intrecciate alla sua e che possono essere recuperate in un film. Sto anche cercando vecchi filmati dell’epoca, reperti che tutti conserviamo in qualche modo. Anzi faccio appello a quanti possiedono vecchi filmini girati in città, nei quali certamente si vedono cose che sono mutate o che non esistono più.
Un tributo dovuto seppur in ritardo?
Un ritardo che può essere superato dando senso alla memoria. L’incontro con Scarpiello è stato importante per molti. Tutti conservano affettuosi ricordi di Lorenzo e hanno mostrato una grande entusiasmo nel raccontarlo, e hanno espresso stupore e consenso per il film che voglio girare. Per esempio, mi ha molto colpito il dottor Massimo Selmi, pneumologo, che aveva in cura Scarpiello, che ancora oggi si rammarica del fatto che Scarpiello ascoltava poco i suoi ripetuti inviti a non fumare, e non si curava bene. Il dottor Selmi e sua moglie lo ricordano con moltissimo affetto. Mi sta piacendo particolarmente il lavoro di scrittura della sceneggiatura, come ogni volta che si lavora su dati reali con cui l’immaginazione deve costantemente confrontarsi. Sto ripercorrendo incontri, volti, narrazioni, come in una “sequenza di montaggio” (che è una delle forme del racconto cinematografico che preferisco). Tonino Del Vecchio, che lo ospitò spesso a Rignano Garganico, che conserva come una reliquia l’ultimo dipinto, un ritratto della famiglia Del Vecchio che Scarpiello dipinse su una mattonella – in parte perduto perché il colore si è dissolto. Romano Di Pumpo (dirigente della USL) mi ha fatto invece una partecipata ricostruzione dell’epoca, dell’atmosfera che si respirava al Teatro Club. Franco Fanizza, ordinario di Estetica all’Università di Bari, mi ha raccontato la sua amicizia con il pittore, sottolineando l’energia dei suoi quadri che a suo parere consiste soprattutto nella rivelazione della necessità del vedere. Secondo Fanizza ciò che rende interessante l’opera di Scarpiello è quel suo particolare modo di vedere la realtà, la “qualità del suo occhio”, attraverso cui guarda la vita, e il grado di trasfigurazione che è riuscito a raggiungere. C’è anche altro, credo, una mozione dello sguardo che funziona come una sensazione trascinante e indicibile. È come se di fronte ai quadri di Lorenzo Scarpiello la nostra anima restasse immersa nel XX secolo.
Che tipo di uomo era, che rapporti aveva con la città, con gli altri artisti?
Su questo punto emergono le maggiori contraddizioni. Viene fuori un uomo timido e riservato, ma anche una personalità estroversa, incline al sarcasmo e alla provocazione. Un personaggio che suscitava stupore, soprattutto quando fantasticava sul significato delle sue opere. Era sicuramente un irriverente. Una volta un prelato gli chiese il prezzo di una sua opera raffigurante una crocifissione. La risposta arrivò come una fucilata: “Come, non sapete il prezzo? Non ve lo siete già venduto?” Scarpiello resta anche un personaggio in parte avvolto nella leggenda. Molti racconti sono storie che lui inventava su se stesso. Costruzioni, provocazioni che escogitava forse per dare sapore e colore all’ambiente in cui viveva, abbastanza arido e ingeneroso non solo per lui, ma per molti artisti dell’epoca, come mi hanno confermato Corrado Terracciano e Dario Damato. Le cose purtroppo non sono molto cambiate. Foggia è una città senza orizzonti per le arti, in cui domina un diniego irrazionale che può essere molto deleterio per la creatività. Un artista vive sempre un po’ gettato nell’esilio. I quadri di Scarpiello alludono anche questo. C’è un episodio molto triste, assurdo e doloroso che mi ha raccontato Renzo Paoletta (attore e autore teatrale, che considera Scarpiello come uno dei suoi maestri). Qualcuno entrò di notte nel suo studio di Corso Roma e cosparse di sterco le sue tele. Paoletta ricorda che passò dallo studio il mattino dopo e trovò Scarpiello molto avvilito. Un sopruso feroce che si commenta da solo e persiste nella memoria come un segno greve.
Che film sarà il tuo?
È difficile dirlo. È ancora nella fase dell’ideazione, una fase sempre ineffabile e condensata come un sogno. La vera definizione può avvenire solo sul set, durante la lavorazione (se il progetto troverà i finanziamenti, cosa non del tutto scontata). Soprattutto nel caso di un film-verità, come questo su Scarpiello. In questa fase si può solo provare a descrivere alcune immagini primarie di questo sogno. Voglio filmare la città. E il vento. Senza vento, Foggia non è possibile vederla. Almeno per me. Un vento che soffia carico di luce e di colori (persino di riflessi liquidi che tradiscono la vicinanza al mare) che svuota i luoghi e le strade, come nei quadri di Lorenzo Scarpiello. La drammatica bellezza della città sembra emergere solo quando è battuta dal vento, torrido o gelido, impetuoso e lungo, che conosciamo bene. Un universo di luoghi, strade, spazi gettati nell’oblio, in cui percepisci qualcosa di usurpato: avvenimenti, memoria, ferite occultate e mai risolte nell’immaginario collettivo. Ma c’è anche un’altra faccia della città che ho scoperto. Entrare nelle case delle persone che ho ascoltato, mi ha fatto vedere una dimensione della città più nascosta e preziosa. Una xenìa che si percepisce raramente nelle strade. Mi hanno raccontato i loro ricordi su Scarpiello, ma avveniva anche altro, condividevano parti di sé, della propria storia che arricchiscono il film in modo insospettabile, rivelano una dimensione che non avevo previsto. Gerardo D’Errico, per esempio, mi ha parlato molto della interessantissima storia della sua famiglia, dei nonni triestini, irredentisti durante la Grande guerra; della vita avventurosa di sua madre, che era una cantante lirica. Mi ha mostrato un bauletto pieno di fotografie, di lettere e di altri documenti. In una fotografia – scattata in un meraviglioso bianco e nero che si conserva benissimo – si vede una sua zia insieme al soprintendente di D’Annunzio.
Voglio poi ricreare i colori e le luci dei quadri di Scarpiello, alcuni suoi personaggi, come Don Chisciotte, Sancho e Ronzinante come lui li ha rappresentati (immagino di filmare un tableaux vivant del Don Chisciotte di Scarpiello recitato da Renzo Paoletta). Anche la musica e i suoni dovrebbero affiorare dai suoi quadri, da quelli sulla pioggia e soprattutto da quello dei Due Clown musicisti, una musica tutta da inventare che vorrei alternare con graffiti d’epoca – penso a Tenco e a De Andrè, ma anche alla voce di Mina, per esempio la sua interpretazione di Città vuota.
Infine c’è la dimensione del viaggio, che è la cifra persistente del mio modo di concepire un film e di raccontare una storia. Un viaggio con più direttrici: nello spazio (Foggia e gli altri luoghi dell’avventura artistica di Scarpiello), nel tempo, nei “quadri della memoria” di chi lo ha frequentato, gli è stato amico e lo ha amato. Nella sceneggiatura prevedo una scena in cui Vera ritrova i suoi pennelli, il cavalletto e la tavolozza (abbandonati dopo la morte di Scarpiello) e si mette a dipingere davanti alla macchina da presa il volto di suo padre, come ricorda di averlo visto la prima o l’ultima volta.
Queste immagini appena abbozzate, le altre che nasceranno, e tutti i nuclei narrativi devono infine amalgamarsi intorno alla figura del protagonista di questo film. Il resto dipende molto da quello che accadrà sul set, tutto quello che è creato dall’atto stesso del filmare.
Una storia, quella di Scarpiello troppo gelosamente e colpevolmente tenuta nascosta?
Che è ora di raccontare. Forse è un tentativo contro l’impermanenza, per affidarsi all’illusione del cinema che ci permette di vedere la durata delle cose. Lorenzo Scarpiello ha lasciato un segno forte, incancellabile negli amici. E tuttavia lui resta l’esempio più tangibile, quasi l’archetipo del modo in cui questa città dimentica il proprio passato, soprattutto le tracce più immateriali lasciate dal tempo: le idee, l’immaginario creativo e le storie. Mi interessa che nel film possa fluire il senso della creatività e della solitudine essenziale di Lorenzo Scarpiello, quella solitudine che affiora da una sua fotografia spesso riprodotta nei cataloghi delle sue mostre. Un’immagine che penso di usare nella sequenza dei titoli di testa, in cui spicca una sua espressione singolare, che riporta alla mente le parole che Paul Cézanne scrisse al figlio in una lettera del 1906: “Vivo un po’ come in un vuoto. La pittura è il meglio che possiedo.”
Sergio Imperio
(L’intervista uscì firmata con la sigla s.i., n.d.r.)
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i commenti sono quasi sempre il risultato di una congiuntura letteraria che lascia al caso le circostanze di una indagine interiore approfondita. Ora qualcuno si accinge a realizzare un film sulla vita e le opere di Scarpiello, navigando,suo malgrado, in quella congiuntura che mal si connette con gli abissi di una personalità ( parlo ovviamente di lorenzo ), che poco hanno a che fare con la libertà di persone che lo hanno conosciuto in circostanze straordinarie. Mi rendo conto che testimonianze difformi da quelle connesse con l’immagine e le atmosfere dei suoi quadri, possono risultare sgradevoli al palato di quanti hanno già scritto e stigmatizzato vita e opere di Scarpiello. Restare alla superficie senza mai andare all’essenza resta la cifra degli “addetti ai lavori”. buon lavoro!